Vi
sono tranci di storia da pochi conosciuti e che vengono portati allo scoperto
da grandi scrittori che nel loro incedere immaginifico disvelano dimensioni del
Passato che divengono, poi, sfaccettature dello spirito.
Ogni
tiranno di ieri e di oggi che si rispetti è terrorizzato di poter morire per
mano di avvelenatori e, di conseguenza, si circonda di “assaggiatori” che si
immolano, volenti o nolenti, in suo luogo.
Hitler
non si è sottratto a tale prassi consolidata e Rosella Postorino, con “Le
assaggiatrici” (Feltrinelli) – vincitrice del Premio Campiello 2018 – ci intrattiene mirabilmente
sulla storia di una “degustatrice forzata”, racconto che emerge dalla vita
realmente vissuta da una ragazza che ad ogni boccone rischiava la morte.
Gli
intrecci psicologici sono numerosi e complessi e, attraverso il cibo, la narrazione
entra in contatto con un’Umanità trattata come res, privata dell’anima e dotata solo di corporeità, una corporeità
concentrata tutta sull’apparato digerente, bisognosa di sentimenti amorosi anche
da parte di chi ti guarda morire fra atroci spasmi senza batter ciglio.
La parola
agisce per mezzo di odori di corpi senza dignità che assorbono gli umori degli
ambienti dove stazionano, corpi che sanno di fienile, di cibo, di vomito e
diarrea, della paura che si prova sapendo che ogni forchettata o cucchiaiata
può bruciare di veleno.
I
vocaboli sono il significato, gli aromi e i fetori il significante.
E anche
nei refettori controllati dalle SS si fa la storia, mentre l’operazione
Valchiria fallisce e il colonnello Claus Schenk von Stauffenberg viene
fucilato. E la storia è fatta anche di fragranze, pungenti come il terrore,
aspre e nauseabonde come il gas.
“Avrei potuto sapere in quel momento delle
fosse comuni, degli ebrei che giacevano proni, attaccati l’uno all’altro,
aspettando il colpo alla nuca, della terra gettata sulle schiene, e la cenere e l’ipoclorito di calcio, per
non farli puzzare, del nuovo strato di ebrei che si adagiavano sui cadaveri, e
offrivano la nuca a loro volta. Avrei potuto sapere dei bambini alzati per i
capelli e fucilati, delle file lunghe un chilometro di ebrei o di russi – sono asiatici,
non sono come noi – pronti a cadere nelle fosse o a salire sui camion per
essere gasati con il monossido di carbonio. Avrei potuto apprenderlo prima
della fine della guerra. Avrei potuto chiedere. Ma avevo paura e non riuscivo a
parlare e non volevo sapere.”.
Fabrizio Giulimondi
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