Dopo
aver recensito L’America non esiste e
La casa sulla roccia, ho affrontato –
credo – il libro a livello introspettivo più corposo mai scritto da Antonio Monda, che, nella sua spola fra
l’Italia e gli States, fra la sua
attività di scrittore, curatore di
mostre letterarie e cinematografiche e docente universitario, ha raffinato le proprie
doti di romanziere: i personaggi da lui creati giganteggiano nelle loro angosce
e frustrazioni, nelle loro sconfitte e vittorie,
rifacendosi talora a quelli creati dal genio di Ernest Hemingway.
“L’Indegno” (Mondadori) è un inno alla fragilità umana, guardata con tenero
abbandono e consapevole rassegnazione, senza disprezzo, talune volte con una
punta di fastidio.
Un sacerdote
cattolico fortemente peccatore – tante volte già incontrato in pellicole e libelli
– mostra il volto vero dell’essere umano tra volontà di santificazione, desiderio
di coerenza e miserrima fragilità. Il prete protagonista, Abram, si analizza di
continuo: il romanzo è la narrazione
della sua quotidiana analisi intimistica, la storia della sua sempiterna sconfitta. Abram sa che i suoi propositi tesi al Cielo sono
geneticamente perdenti; sa di essere uno
sconfitto perché egli è un essere umano e gli esseri umani sono stati concepiti
nel loro corpo, nelle loro menti e nella loro anima deboli, abbandonati alla
loro inevitabile crudele “caduta”; gli esseri umani sanno di essere infimi e fiaccati
dal Mondo, ma nonostante questo sono dotati di una innata travolgente volontà di contrastare questa debolezza, di
andarvi oltre, nella illusione di poterla sopprimere, per poter giungere alla perfezione
voluta da Dio e in esso incarnata.
Lavoro
scritto con il peculiare stile agile, fresco e pastello di Monda, lussurioso e religioso, esprime una profonda pulsione spirituale
dell’Autore, che cerca ciò che è inarrivabile, irraggiungibile perché dentro l’uomo
v’è insito un invincibile senso di
perenne sconfitta, perché la luce è troppo lontana e la sua intensità abbaglia
troppo, fa paura, brucia.
La
frustrazione del ministro di culto si espande e travolge tutti, prima Lisa e poi
per cerchi concentrici gli altri.
Sembra
di ascoltare Fragile di Sting mentre il
lettore incespica fra desolanti amori,
possenti sentimenti, mendaci parole e miserabili ruberie.
Sembra
che il realistico racconto dell’incontro di boxe
del 1974 fra Foreman ed il compianto Cassius Clay (deceduto lo scorso 3 giugno,
ndr) voglia accennare alla diuturna
lotta fra il Bene e il Maligno.
L’intercalare
di passi evangelici, encicliche e salmi rafforzano la disperata ricerca di
coerenza, frenata dal fardello troppo pesante di limiti e ostacoli che le
persone hanno sulle proprie spalle, spalle che sono dentro se stesse.
“Padre nostro che sei nei cieli, ci hai
chiesto di essere nel mondo ma non del mondo, ma poi ci vuoi umili, insignificanti,
sconfitti. Hai voluto guerrieri come San Paolo e sant’Ignazio, li hai esaltati
e hai consentito loro di arricchire la tua chiesa. Ma continui a ricordarci che
i beati sono i poveri di spirito e gli ultimi saranno i primi. Padre nostro se
non ti amassi ti odierei profondamente, e forse a volte lo faccio, perché tu
sai che ti sto amando anche in questo momento.
Padre che hai sacrificato tuo figlio,
Padre che ti sei fatto carne e hai sentito tutto quello che la carne desidera e
pretende.
Padre dei peccatori e degli assassini.
Padre dei falliti e dei traditori.
Padre di mio padre, che hai visto amare
mia madre, e concepire questo mio corpo indegno. Abbi pietà del mio furore da
angelo caduto”.
Fabrizio Giulimondi
Nessun commento:
Posta un commento