Già
il cinema aveva ambientato la propria azione scenica in quei “non luoghi” – per
dirla con Marc Augé – che sono i treni: uno fra tutti Zabriskie
Point, la splendida pellicola del
1970 di Michelangelo Antonioni.
La
letteratura non è da meno e il vendutissimo psico-thriller della esordiente inglese Paula Hawkins, “La ragazza del treno” (Piemme), viaggia lungo binari intriganti ed intrigati,
avvincenti ed introspettivi.
La
verità non è mai quella che si palesa ma è sempre nascosta alle spalle di un sorriso, rannicchiata in maniera subdola ai
piedi di quella felicità verso cui ogni
essere umano protende, che ne è rosicchiata come un tavolo dai tarli: quel sorriso è falso, quella felicità non è altro
che un totem inarrivabile, un simulacro, infettato dalla verità che può avere i
contorni della paranoia.
Frammenti
di ricordi che riemergono da un vicino passato coperti da uno strato caliginoso
di alcol; lampi di memoria decisivi per capire cosa sia successo quel sabato di
sangue; sprazzi di reminiscenze ai quali gli investigatori non credono perché la mente
da cui lentamente fuoriescono è di una alcolista cronica.
Tra
un déjà-vu e l’altro
instancabilmente, caparbiamente, con le pulsazioni cardiache che crescono sempre
di più, la verità può cominciare a
baluginare in fondo alla galleria: “Tutto
è caldo in quell’uomo, tranne il suo sorriso. Quando ha scoperto i denti ho
visto l’assassino che vive in lui”.
Le
descrizioni padroneggiano il romanzo: descrizioni puntigliose dei luoghi, dei
tratti psicologici dei personaggi e delle loro fattezze fisiche puntellano
saldamente la narrazione, mentre l’alcol è la corda ruvida che tutto lega, in
un crescendo boleriano di follia. La normalità è solo una apparenza perché l’autentica
realtà è fatta di follia e quelli che sembrano sogni non sono altro che l’accaduto,
che trasuda dalla mente come liquidi
alcolici dalla pelle: “E’ stato come
tastare un muro con le mani, cercando una strada, finché i contorni delle ombre
non si sono fatti più distinti e i miei occhi non si sono abituati all’oscurità.
Non è successo subito. All’inizio, anche se mi sembrava un ricordo, ero
convinta che fosse un sogno”.
Ogni
accadimento è fatto di più realtà, tante quanti sono gli occhi che lo
osservano, tante quante sono le persone che lo vivono. Coinvolgente e astuta la
tecnica narrativa dell’Autrice che descrive lo stesso episodio scrutato dalla
visuale di Anna, Rachel e Megan: tre protagoniste, tre realtà differenti, tutte
vere, tutte false.
“La mattina prendo il treno delle 8.04, la
sera ritorno alle 17.56. E’ il mio treno, l’unico che prendo. Tutto qui”.
Fabrizio Giulimondi
Nessun commento:
Posta un commento