Il Premio Pulitzer 2016, riconosciuto al primo romanzo del vietnamita naturalizzato statunitense Viet Thanh Nguyen “Il simpatizzante” (Neri Pozza), si concentra tutto sull’ultimo centinaio di pagine. La lunghissima, interminabile descrizione delle torture psicologiche e fisiche inflitte dai “rieducatori” vietcong al “Capitano” solo fittiziamente narra vicende “sensibili”, raccontando in realtà la dicotomia dell’uomo e il paradosso delle storie umane. “Il simpatizzante” è un’ opera che si sofferma sulla separazione della mente di ogni persona, sul contrasto al totalitarismo comunista realizzato a colpi di napalm e di “agente arancio”, responsabili di migliaia di vietnamiti bruciati vivi o nati con più teste, più braccia e più gambe; è una meditazione sulla dilaniante scissione fra essere una spia ed una contro-spia, fra l’ossessivo parlare di indipendenza e libertà da parte del Governo nord-vietnamita e poi, dal 1975, vietnamita, e la sistematica oppressione del Popolo indocinese annichilito in ogni suo più elementare diritto di pensiero, fra l’internalizzazione della democrazia e dei diritti umani negli States e l’esternalizzazione ad opera degli stessi di conflitti armati portatori di sangue più che di libertà: “I francesi e gli americani non avevano fatto esattamente lo stesso? Un tempo rivoluzionari a loro volta, erano diventati imperialisti, colonizzando ed occupando la nostra piccola terra ribelle e togliendoci la libertà con la scusa di volerla salvare. La nostra rivoluzione era stata più lenta della loro e decisamente più sanguinosa, ma avevamo recuperato il tempo perduto. Quando si era trattato di apprendere le peggiori abitudini dei nostri padroni francesi e dei loro sostituti americani, ci eravamo dimostrati ineguagliabili”.
E’
la dicotomia della storia che interessa l’Autore, insieme allo studio delle esistenze
umane che la storia rende dicotomiche, al pari del Vietnam, carne e sangue ma
anche simbolo del genere umano e di ogni
“Regno” terreno dove esso si sparpaglia e si spariglia: “La nostra stessa patria era maledetta, imbastardita. Divisa tra Nord e Sud,
e se si poteva dire di noi stessi che avevamo scelto la separazione e la morte
lanciandoci in una guerra incivile, anche questo era vero solo in parte. Non
avevamo scelto di essere corrotti dai francesi, di essere suddivisi per opera
loro in una blasfema trinità del Nord, Centro e Sud, per poi venire consegnati
alle grandi potenze del capitalismo e del comunismo per una ulteriore
bipartizione e vederci affidare un ruolo di eserciti in lotta, in una delle
tante partite a scacchi della Guerra Fredda, giocate in stanze con l’aria
condizionata da uomini bianchi in giacca e cravatta”.
“Il simpatizzante” è una riflessione
costellata di “se”, un’ode all’umiltà tramite la metafora del canto
(evangelico?) al piede, su cui tutto il corpo si regge, un paradosso che fa
della parolina “niente” elemento dirompente che salverà il “Capitano” da certa
ed orripilante morte, mettendo all’angolo gli abusati, storpiati e vilipesi vocaboli di “indipendenza” e “libertà”.
Cento
pagine conclusive su cinquecento che racchiudono, come un cofanetto di pietre
preziose, il Pulitzer 2016.
Fabrizio Giulimondi
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