“Diventa una vertigine, il dolore. Qualcosa
di familiare e nello stesso tempo di clandestino, di cui non si parla mai.”.
Il neo
realismo già incontrato ne L’ultimo
arrivato, vincitore del Premio Campiello 2015, Marco Balzano ce lo fa riassaporare nell’ultima sua fatica
letteraria, probabile vincitrice del prossimo Premio Strega, “Resto qui” (Einaudi).
La
narrazione di Balzano trasuda
tristezza, una tristezza mista a malinconia, una tristezza ed una malinconia
struggenti, quasi impietose. “Resto qui”
è un lungo amarcord immerso nell’acqua di una diga che ha cancellato un paese
alto atesino, Curon. Fuori dall’acqua è rimasto solo il campanile di una chiesa,
in memoria di ciò che è stata una Comunità dissolta dalla bramosia dei “forestieri”
e dalla apatia degli “indigeni, ciechi dinanzi a ciò che stava accadendo.
Non v’è
un protagonista perché sono tutti protagonisti. La coralità tratteggia il
percorso del racconto ove tutti giganteggiano nella loro meschinità, nella loro
viltà, nel loro coraggio e umanità e amore. Tutti si mostrano in maniera
impudica per quello che sono: persone, donne e uomini, esseri umani, fragili,
granitici.
Le
vicende storiche sono il dietro e il davanti le quinte, dal fascismo, al nazismo,
alla lotta partigiana, sino alla modernizzazione voluta da De Gasperi, una modernizzazione
che per la gente di Curon ha solo il sapore e l’odore di calcinacci, di
intimità frantumata: “Il progresso vale
più di un mucchietto di case”.
Lo smantellamento
di abitazioni fragranti di pane appena sfornato e maleodoranti di vite sudate, il
disfacimento di vie calpestate da piedi contadini, sono strazio dell’anima,
vaporizzazione di individui in carne ed ossa.
Le
descrizioni abbracciano il lettore, e che riguardino persone o guardino ai
luoghi nulla cambia, perché tanto i luoghi e le persone si scioglieranno nella stessa
dimensione: la persona è il luogo cui
appartiene e il luogo è intriso delle fattezze delle persone che vi dimorano,
rispecchia i loro volti, i loro sorrisi, i loro pianti.
L’idioma
è il sonoro del libro: “L’italiano e il
tedesco erano muri che continuavano ad alzarsi. Le lingue erano diventate
marchi di razza. I dittatori le avevano trasformate in armi e dichiarazioni di
guerra”
E’ una
storia di assenza, anzi di assenze: assenza della figlia andata via e che mai
più ricomparirà; assenza dalla casa natia; assenza di pace; assenza del proprio
paese; assenza di radici violentate; assenza di presa di coscienza che l’inazione
condurrà placidamente alla disintegrazione del visibile e, con esso, dell’invisibile. L’acqua della diga nasconderà la corporeità e
renderà eterei famiglia, parenti e amici, null’altro che vapore acqueo che si
alza dalla tranquilla superficie di un lago, artificialmente venuto ad
esistenza per volontà del “signore con il cappello”, disinteressato ad un passato
e sprezzante del futuro.
Forse,
chissà, quel “domani” svanito riposa fra queste pagine che si abbandonano
sconfitte in una poeticità che travalica il tempo, oramai annichilito per gli
abitanti di Curon, e si inerpica oltre lo spazio di quel paesino, crocevia di
tante vite dissolte: “Guardo le canoe che
fendono l’acqua, le barche che sfiorano il campanile, i bagnati che si stendono
a prendere il sole. Li osservo e mi sforzo di comprendere. Nessuno può capire
cosa c’è sotto le cose. Non c’è tempo per fermarsi a dolersi di quello che è
stato quando non c’eravamo. Andare avanti, come diceva Ma’, è l’unica direzione
concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe messo gli occhi di lato. Come i pesci.”.
Fabrizio Giulimondi
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