“Joker” di Todd Phillips è un’opera
che guarda all’Oscar come miglior film perché è una pellicola di superba
bellezza.
Non è
un lavoro che parla di super-eroi ma una trattazione estetica ed artistica di
politologia, sociologia, antropologia, psicologia e psichiatria. Il simbolismo che
punteggia la storia e la necessità onirica del protagonista sono le muse
ispiratrici del Regista.
“Joker” è una composizione sinfonica di
inquadrature di un volto possente, tragico come riesce ad essere solo quello di
un pagliaccio, il cui sguardo, la cui movenza della bocca, la cui risata
costituisce una delle più alte performance
interpretative delle ultime decadi. Il piano sequenza che si stringe sempre di
più sulla immagine del viso di Joker mentre gli viene rimarcato per l’ennesima
volta che è bravo ma “strano”, rimarrà nella storia del cinema americano: un
viso che cambia nella espressività degli occhi, nell’allargamento delle labbra,
nella contrazione della mimica facciale, in una magniloquente fisicità del dolore
e della sofferenza nascoste dietro un sorriso, arte drammatica e antica degli
uomini del circo.
Cos’è
una risata se non un pianto, una triste stortura di sonorità deformi, una
pulsione improvvisa di gioia, un gutturale e osceno suono che sgorga da una
gola che si strozza perché ne vorrebbe impedire la fuoriuscita. La risata di
una vita vissuta come tragedia, no, anzi, come commedia. Una risata che è la
vera colonna sonora del film, commista alla melodia di un violoncello, alla voce
di Frank Sinatra e di ritmi ossessivi elettronici che scuotono l’angoscia che è
nascosta in noi.
Il
disturbo mentale che evoca amore e riconoscimento del proprio esistere che
costruisce un immaginifico rapporto sentimentale con una ragazza, la necessità
di amare ed essere amati che si proietta dalla mente alla realtà, ma non l’amore
ma la violenza libera il coraggio e fa avvicinare Joker alla “sua” ragazza per
baciarla: il coraggio si manifesta solo dopo che l’omicidio lo libera dalle sue
paure e lo fa “esistere” a se stesso e agli altri. Cogito ergo sum? No. Vim
afferre ergo sum.
Il
racconto in maniera subliminale veleggia fra “Taxi driver” e “It,” anche se il
vero dietro le quinte che occhieggia tutto il tempo lo spettatore è “Arancia
meccanica”: se una società malata abbandona la disperata voglia di amare ed
essere amato del malato mentale, quest’ultimo sovraneggerà sulla società con la
violenza. La società è criminale, la società è violenta. È la società a creare
i mostri. È la società a creare Joker. Joker nasce buono. L’uomo ne abusa. La
società compie la metamorfosi da Arthur a Joker. La società manipola e
indottrina le coscienze. Robert de Niro
ne è il tedoforo. Robert de Niro è il
Quarto Potere.
La
violenza come legittimazione di se stessi per “esistere” dinanzi agli altri,
essere conosciuti e riconosciuti dalla e nella Comunità, fatta di masse senza volto,
celate da maschere di clown. Il magma umano ha ora una origine e uno scopo,
origine e scopo identificato nell’archetipo, colui che ha avuto il coraggio di “uccidere
quelli di Wall Street”, che ha avuto la forza di ammazzare il Sommo Sacerdote
del Quarto Potere: lui, Joker. Joker non è l’anti - Batman, ancora un bambino
figlio inconsapevole del Potere che disprezza le masse di clown. Joker dà voce
ad una violenza pura, vindice degli inascoltati, anonimi a se stessi e agli
altri, che sperano almeno in una morte che possa avere un senso dopo una vita
che non ne ha avuto. Questo film è vietato ai minori di 14 anni, non certo per
i radi sprazzi di sangue che colorano di gioia il pubblico, che vede eliminato
finalmente il “cattivo”, ma per la sua ratio.
L’interprete
di Joker, Joaquin Phoenix, Il Commodo
de “Il gladiatore”, è già nel firmamento dei grandi di Hollywood, dopo aver improvvisato
leggiadro il movimento di braccia e gambe al pari di un mimo e, come un mimo, evaporare
nelle ultime battute, in un lucore bianco simile a quello di sogni che
svaniscono al mattino.
Se non
ora, quando come miglior attore protagonista?
Fabrizio Giulimondi
bellissima recensione di un carissimo amico
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