giovedì 24 dicembre 2020

"IO SONO L'ABISSO" di DONATO CARRISI (LONGANESI)



 La spazzatura era la prova dell’imperfezione del creato”.

Un libro che si legge tutto d’un fiato? Detto fatto! “Io sono l’abisso”, ultimo straordinario lavoro del genio italiano del thriller Donato Carrisi, edito dalla Longanesi.

Credo che rinvierete gli impegni piuttosto che smettere di leggerlo.

Carrisi in questo romanzo si avvicina al compianto Pietro Faletti nel tipo di storia, nella narrazione e nello stesso titolo, abbandonando le tinte esoteriche e catacombali di quelli precedenti.

Il Bene e il Male non sono entità nettamente separate come ci vuole far credere Robert Louis Stevenson nel suo racconto gotico “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”. Il Bene e il Male convivono in noi, si combattono e si accoppiano, si odiano e si amano. Il Bene vive anche nell’essere più abietto, a maggior ragione se la sua abiezione è sprigionata da terrificanti abusi subiti da bambino (“Sono stato partorito da una fetida piscina, ho imparato a respirare dentro l’acqua sporca. Quel buco per terra è stato la mia placenta. La melma, il mio liquido amniotico”). Carrisi forgia un personaggio che è lo sviluppo di un bambino che conosce la più brutale violenza fisica e morale. La costruzione del protagonista è frutto di un’attenta analisi psichiatrica della involuzione mentale e comportamentale di un essere umano in cui dominano i germi del Male instillatigli sin dai primi anni della sua esistenza.

L’invisibilità (“Era solo una macchia trasparente che transitava fugace nel loro campo visivo per poi sparire”) è la consapevolezza che la propria vita non valga nulla e sia inesistente per gli altri. L’unica realtà valevole di interesse è l’immondizia, attraverso la quale si può conoscere la vera, unica, autentica interiorità degli altri, quella nascosta al mondo (“L’immondizia non mente mai”). Sapersi incapaci di vivere una esistenza, perché ci si percepisce inconsistenti, neanche in grado di provare odio e impossibilitati persino a sentire un desiderio di vendetta, se non travasando questi sentimenti nell’“altro da sé” che, però, “è in sé”.

L’uomo che puliva-Micky evoca alla mente il ragazzo- macellaio del film del 1996 di Gregory Hoblit “Schegge di paura”: l’essere umano è complesso e nella sua apparente unicità si nascondono molti “altri da sé”.

Il trauma sorge dalla scoperta di dimensioni dell’animo del tutto sconosciute: compassione, empatia, emozioni, affetto. Ci si avverte “visibili” agli occhi di una ragazzina tredicenne vittima di revenge porn (“la ragazzina dal ciuffo viola”), che ha “deluso” la famiglia perché non incarna il “modello” che si aspettavano di aver partorito: il “mostro” comprende di essere incomprensibilmente considerato dall’altro, ossia da una Umanità che vede e ha bisogno di lui. Le modalità di aiuto sono le uniche che conosce. La violenza è salvifica, vista come unico mezzo per interpretare al meglio l’attenzione verso la vittima della crudeltà altrui, un’attenzione di cui non si ha contezza. Il demonio Micky è sconfitto, prevale “la persona che puliva”, evapora la dicotomia distruttiva della personalità che si ricompone in una sola e angelica via di salvezza prima di morire.

Gli attori del racconto spesso non hanno nomi ma sono indicati per perifrasi, non sono persone nella loro interezza ma sono quello che fanno e sono quello che appaiono. Il nome identifica l’individuo nella sua complessità, cattura l’“in sé” dell’essere umano, la sua dignità inviolabile; la perifrasi parcellizza e destruttura un uomo e una donna in singole porzioni mettendone in evidenza soltanto alcune (“La cacciatrice di mosche”): diventeranno persone vere e proprie solo quando sarà riconsegnato a loro un nominativo.

V’è sempre un punto della propria esistenza in cui a ognuno è dato un ruolo da protagonista per la vita dell’altro, un altro anche solo di passaggio, perché quel “passaggio” servirà a far comprendere all’invisibile di turno che è visibile a qualcuno, visibile ed essenziale: “Se quel giorno fossi morto, non mi sarei mai salvata”.

Fabrizio Giulimondi

lunedì 7 dicembre 2020

"LA BOUTIQUE DEL MISTERO" di DINO BUZZATI (MONDADORI)


La boutique del mistero” (Mondadori) è una superba raccolta di racconti di Dino Buzzati, scelti e collazionati dallo stesso  grande scrittore bellunese (vincitore nel 1958 del Premio Strega, quando il Premio Strega era il Premio Strega): un caleidoscopio di storie che divengono letteratura con la L maiuscola, storie  fantastiche, fantascientifiche, orrorifiche, profondamente spirituali permeate ovunque della presenza di Dio, di grande forza morale, di patti mefistofelici, misteriose, inquietanti, crepuscolari, catacombali, cimiteriali, favolistiche, di tragici sprazzi autobiografici, ironiche, sornione ed ilari e di grande, immenso, immane rimpianto per un passato a cui non ci si può più sottrarre, cui non si può più porre rimedio, ma solo dedicarvi un ricordo, ed espiare: “Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una  sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta una eternità per cancellarlo. Fra miliardi di secoli, la sofferenza e la solitudine di mia mamma, provocate da me, esisteranno ancora. E io non posso rimediare. Espiare soltanto, semmai, sperando che lei mi veda.”.  

Fabrizio Giulimondi


domenica 29 novembre 2020

“IL PIÙ GRANDE SPETTACOLO DEL MONDO” di DON ROBERTSON

 

Il più grande spettacolo del mondo” (Nutrimenti) appartiene alla volumetrica produzione letteraria dell’americano Don Robertson, composta da diciotto romanzi -  di cui ho già letto e recensito “Paradise Falls” – in corso di pubblicazione dopo la sua morte avvenuta nel 1989.

Il linguaggio di Robertson è molto agevole e la storia scorre placida e carsica sino all’“esplosione”, non solo autentica e devastante ma anche in senso narrativo e descrittivo. Il lettore vive la tragedia, la catastrofe, sente il clangore dei crolli, avverte il puzzo di carne umana bruciata, percepisce il calore insopportabile sulla propria pelle, è stordito dal gas di cui è satura l’aria, si immedesima nella disperazione e nell’eroismo dei giovanissimi protagonisti mentre l’azione gli scorre davanti agli occhi come un film carico di effetti speciali. La brezza si trasforma in uragano in un istante, il tratto stilistico muta rapidamente registro e la confusione, il caos, la perdita di tempo e di spazio travolge un intero quartiere di Cleveland insieme alle certezze di chi legge: il boato sembra di viverlo in diretta, anzi, di stare proprio lì, sul luogo dove è avvenuto.

Questo libro magmatico e molto americano esalta i valori del coraggio, della determinazione, dell’onore, dell’autostima e del riscatto, valori potenziati dall’ essere perseguiti da ragazzini sotto i dieci anni.

È un romanzo onomatopeico e ritmato da grumi di parole che aggettivano ossessivamente le persone.

Ogni fatto, ogni ambiente, ogni situazione richiama un ricordo in cui i tanti personaggi divengono protagonisti di vicende minute di vita quotidiana. L’Autore guarda le proprie creature dall’alto, al pari di un corpo astrale, ove ogni accadimento è accompagnato dalla descrizione di ciò che succede in quel momento in altri spazi e nelle esistenze di altri esseri umani, similmente a pennellate rapide e decise di un pittore: un fatto deflagra in più tranci di vita che palesano ulteriori mondi.

Una delle sensazioni più belle che si possono provare è realizzare di aver compiuto qualcosa di difficile. È qualcosa che è tuo. È qualcosa che nessuno può portarti via. Ed è anche qualcosa di coraggioso, molto coraggioso. Determinazione significa coraggio e coraggio significa che sei una persona vera.”.

Fabrizio Giulimondi

 

martedì 24 novembre 2020

"OGGI FACCIO AZZURRO" di "DARIA BIGNARDI"

Oggi faccio azzurro

"La cosa più importante riguardo al problema della forma è se la forma scaturisca o meno da una necessità interiore.".

"Oggi faccio azzurro" (Mondadori), deludente ultimo romanzo di Daria Bignardi, sembra scritto da altre mani rispetto a quelli precedenti.

La locuzione adoperata nel titolo riprende un modo di dire medioevale germanico, utilizzato dagli artigiani che vedevano il cielo soltanto durante giorno in cui non lavoravano.

La storia gira intorno ad una donna lasciata dopo venti anni dal marito e che comincia a sentire nitidamente la voce di Gabriele Münter, pittrice tedesca e per molti anni amante e compagna del grande artista russo naturalizzato francese Kandinskij, precursore della pittura astratta. La "Voce" le dà consigli in continuazione, la rampogna aspramente sul suo modo di comportarsi e pensare e le racconta della sua storia di amore e professionale con Vasilij: "La vita è come l'atelier di un pittore: ci sono tele appoggiate alla parete e altre sul cavalletto, in lavorazione. Ci sono i colori, le tavolozze, i modelli. E l'ispirazione che guida l'Autore dentro l'avventura della sua opera.".

Lo studio della psicoanalista cui chiede aiuto diventa il palcoscenico dove si svolge prevalentemente l'azione e ove la protagonista incontra il "Primo" e il "Dopo", ossia l'uomo che la precede e la giovane ragazza che le succede all'ora di analisi.

La narrazione è fin troppo facile e quasi scontata, come il finale, alternandosi, in maniera un poco pretenziosa, fra fughe debolmente introspettive e intimistiche e richiami pittorici.

La tecnica editoriale è commercialmente furba per le dimensioni grandi dei caratteri, l'ampio spazio dell'interlinea e i capitoli fra il corto e il cortissimo: la gente non abituata a leggere (la maggior parte) si sentirà certamente rassicurata.

Peccato perché la Bignardi nei suoi precedenti lavori ha mostrato di saper catturare il suo pubblico.

Non vi saranno certamente problemi di vendite: basterà qualche passaggio televisivo nei "salotti" giusti.

"L'antitesi spirituale che distingue rosso e azzurro produce una strana, potente armonia...".

Fabrizio Giulimondi

 

domenica 22 novembre 2020

“LE PARTICELLE ELEMENTARI” di MICHEL HOUELLEBECQ


Sarebbe bello se l’io fosse un’Illusione, anche se comunque sarebbe un’illusione dolorosa

Le particelle elementari” (Bompiani) è la terza opera di Michel Houellebecq che recensisco. Lo scrittore francese, famoso per essere l’autore di “Sottomissione”, a causa del quale è stato messo sotto scorta per le minacce di morte islamiste, ha partorito un romanzo particolarmente complesso, consigliabile a persone maggiorenni che non si infastidiscano dei numerosi e troppi passaggi erotico-pornografici che punteggiano – fastidiosamente – la narrazione incisiva, affascinante, affabulante, coinvolgente, intelligente, erudita e tormentata.

Lo scrittore attraverso la più brutale e violenta decadenza morale dei protagonisti, due fratelli e le loro “amiche” costellanti il proprio mondo, percorre il tramonto dell’Occidente (per dirla con Spengler) per aver sprezzantemente messo da parte e cancellato la sua storia, le sue radici e la sua spiritualità. Houellebecq è un Virgilio che indica al mondo quanto possa essere infernale la vita degli uomini quando essa è costruita con le fondamenta e le mura fatte della più pura e materialistica libertà. La tensione del racconto è proprio verso la spiritualità e la religione tramite l’illustrazione di una tossica disperazione e di una venefica solitudine malata di sesso. Il lavoro si regge su tre gambe: la solitudine, la disperazione e una sessualità putrida e forsennata, sino alle aberrazioni snuff del satanismo.

L’elemento erotico e pornografico è presente in ogni scritto di Houellebecq ma qui assume un connotato esasperato e esasperante, vero baricentro della storia e forza motrice autodistruttiva e di isolamento esistenziale. La parte più cupa e disgregante della letteratura e della cinematografia di Pasolini permea non pochi momenti narrativi e descrittivi de “Le particelle elementari”. La liberazione transalpina ed europea dei costumi ha condotto l’uomo al più tragico solipsismo. Il senso di invecchiamento, inutilità, malattia e morte avvolgono drammaticamente ed inesorabilmente gli attori quarantenni (in realtà ancor prima) del romanzo, mentre la libertà assoluta e deificata accompagna loro in direzione del totale vuoto interiore, del tutto privo di una prospettiva di futuro, ove i figli non si possono più avere perché l’aborto non è un atto di liberazione ma di negazione (“Non si rendeva conto di vivere l’esperienza concreta della libertà; qualunque cosa fosse era terribile, e Annabelle era destinata a non essere più la stessa, dopo quei dieci minuti”). Il vuoto aleggia per tutta la lettura, impregna le parole ed assorbe il lettore che lo percepisce come reale, conseguenza di un edonismo lugubre e asfissiante che non ha emancipato i protagonisti ma li ha resi servi.

Accattivanti la fungibilità fra modelli scientifici e sistemi di pensiero completamente diversi fra di loro, come la fisica, la biologia, la chimica e la letteratura, oltre l’interscambio fra profonde riflessioni filosofiche e teologiche con studi tecnico-scientifici.

Possenti e chiarificatrici, riassuntive dell’idea che sottende centinaia di pagine da leggere, nonostante passi brutali e finanche disgustosi, sono queste poche righe: “Coppia e famiglia rappresentano l’ultima isola di comunismo primitivo in seno alla società liberale. La liberazione sessuale ebbe come effetto la distruzione di queste comunità intermedie, le ultime a separare l’individuo dal mercato. Un processo di distruzione che continua oggigiorno.”.

Fabrizio Giulimondi

 


venerdì 9 ottobre 2020

FABRIZIO GIULIMONDI: "TERRORE E IGNORANZA SONO IL VIATICO PER UNA INCIPIENTE DITTATURA"

 

 Coronavirus, ecco le immagini del virus - la Repubblica

 La paura fa dire che 2+2 fa 5, 6 o anche 12, e chi osa dire che fa 4 è un negazionista e non uno che pensa, ragiona, analizza e compara.

Guardate i numeri sotto riportati: si commentano da soli anche se la paura farà dire che 2+2 fa 32.

Si desidera far notare solo alcune cose:

1)  È ancora vigente l'art. 656 del codice penale che sanziona penalmente la pubblicazione o la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l'ordine pubblico;

2)  Sono ancora vigenti gli art. 85 del R.D 773/1931 e 5 della legge 152/1975, alla luce dei quali i penalisti si stanno interrogando sulla compatibilità dell'uso obbligatorio delle mascherine in luoghi aperti o aperti al pubblico (penso alle banche e alle gioiellerie) con disposizioni penali che vietano mascheramenti in luoghi pubblici o aperti al pubblico, incluse le manifestazioni;

3)  Coprire il viso e bocca per molte ore, visto che la mascherina è obbligatoria in strada, in ufficio, nelle scuole e nelle università, può determinate, a detta di molti medici, problemi di tipo sanitario e, a detta di psichiatri e psicologi, crisi claustrofobiche e di panico;

4)  La circolare del Ministero della Salute del 27 febbraio scorso afferma che sussiste rischio di contagio se si sta sotto i due metri di distanza e per un periodo superiore ai 15 minuti: come si concilia ciò con l'uso di mascherine all'aperto in cui una persona cammina per strada e incrocia per una manciata di nanosecondi un'altra persona?

5)  Ci si è posti il problema dei danni irreversibili a livello psicologico e di sviluppo della personalità nei bambini che, sin dai primi anni di vita, vedono l'atro come un potenziale portatore di una malattia?

6)  Una società in cui per una buona parte della giornata non si vedono più volti, volti che, a detta di qualcuno, dovrebbero essere nascosti anche in casa se in presenza di parenti o amici, non è forse letteratura distopica che diviene dispotismo e, infine, terrificante realtà?

È QUESTA LA DIMENSIONE UMANA IN CUI VOGLIAMO VIVERE E FAR CRESCERE I NOSTRI FIGLI E NIPOTI?

Mi auguro leggiate con attenzione i dati sotto riportati, ricordandoVi che la popolazione italiana è composta da sessanta milioni di anime e che ogni giorno muoiono 485 persone per tumore e 630 per infarto.

Buona riflessione!

Fabrizio Giulimondi

 

23 marzo                                                         8 ottobre

Nuovi positivi  4789                                                                             4458

Decessi                                   601                                                         22

Tamponi                              17.000                                                       128.000

% positivi su tamponi          28%                                                           3.5%

Terapia intensiva                  3204                                                          358

Ricoverati                               20692                                                      3925

 

 

venerdì 2 ottobre 2020

"LACCI" di DANIELE LUCCHETTI


Lacci” di Daniele Lucchetti, con un cast di eccezione (Alba Rohrwacher, Luigi Lo Cascio, Laura Morante, Silvio Orlando, Giovanna Mezzogiorno), è un film profondamente introspettivo, psicologico, intimo, che scava impietosamente dentro le relazioni affettive, sentimentali, di coppia.

La verità e la trasparenza sono valori anche quando destrutturano un matrimonio e scarnificano l’anima del coniuge tradito?

Rimanere insieme per il gusto di mestare sull’accaduto, oramai passato, oramai remoto, per una vita intera e devastare l’esistenza dell’autore del misfatto, che non ha mai dimenticato l’amore per la propria amata amante.

Il tempo non riduce ma amplifica ciò che non è potuto essere: il sentimento è potenziato dal ricordo, dal fallimento, dalla rinuncia, dal rimpianto, dalla malinconia. Il ricordo copre e cancella ciò che non andava per esaltare solo ciò che era bello. Il dimenticabile diviene indimenticabile.

Una pellicola sulla crudeltà di recondite dinamiche fra marito e moglie, sulla debolezza di carattere del fedifrago e la folle reazione del tradito che tutti coinvolge e tutto distrugge, e autodistrugge.

Dialoghi incisivi e ottimamente ritmati e un recitativo di stampo teatrale in cui le immagini non si concentrano mai sull’individuo ma sulla coppia, nella quale l’individuo esiste in risposta all’altro.

In “Lacci”, metaforici e fisici, l’interpretazione vocale, espressiva, mimica e corporea domina piacevolmente sullo spettatore.

Fabrizio Giulimondi




lunedì 28 settembre 2020

"PADRENOSTRO" di CLAUDIO NOCE

 

Dopo il lockdown finalmente si torna a vedere i film sul Grande Schermo con una bellissima pellicola di Claudio Noce, "Padrenostro", che vede co-protagonista un sempre bravissimo Pierfrancesco Favino, vincitore della Coppa Volpi come miglior interprete maschile all'ultimo festival del cinema di Venezia.

Il regista racconta se stesso da bambino, figlio del vice questore di Roma Alfonso Noce, vittima di un attentato da parte della organizzazione terrorista NAR, in cui persero la vita un poliziotto e un criminale.

In realtà l'opera non è sugli anni di piombo ma su cosa ha provato il regista (interpretato da uno straordinario Mattia Garaci, fanciullo con notevoli doti attoriali, mimiche ed espressive) nel vivere nel costante incubo di perdere il padre. Il ragazzino l'attentato lo ha visto, all'insaputa dei genitori, e questo apre una voragine nell'animo di Valerio, voragine a cui la famiglia non sa fornire una risposta, non capendola, anzi, non sapendone nemmeno l'esistenza.

È un film ambivalente sulla solitudine e la tragedia che hanno vissuto intere famiglie, sulla paura di vedere ammazzato un proprio familiare, il proprio padre, madre, figlio, figlia, fratello, sorella. Le vittime sono i bambini, anche quelli dei terroristi: i figli pagano la colpa dei crimini efferati compiuti dai genitori.

La dicotomia fra ragazzini, il figlio del vice questore e del terrorista ucciso (per legittima difesa), è anche fisica e comportamentale: Valerio è basso e biondo, tutto casa e regole, silenzioso, taciturno, perennemente impaurito, mentre Christian (Francesco Gheghi) è alto e bruno, slanciato e disinibito, senza regole e induce il primo a fumare, bere, leggersi i giornaletti pornografici e non rispettare gli orari. Le immagini vaste, immani, potenti, di ampio respiro, senza confini, della Calabria rafforzano la solitudine di Valerio, ne sottolineano l'angoscia. La respirazione ansimante e stertorosa punteggia le scene insieme alle musiche degli anni '70.

La tensione è l'argine entro cui si muove la trama: lo spettatore in ogni momento si aspetta che accada qualche cosa...di brutto.

L'unione della realtà con l'arte si palesa nelle ultime battute, quando il regista si manifesta da adulto, soggetto ad attacchi di panico, perché la paura se non curata è ancora lì, terribilmente presente: il padre si è salvato ma tanti come lui hanno perso la vita per mano di brigatisti che, dietro un linguaggio farneticante, hanno distrutto la vita di centinaia e centinaia di famiglie.

Il contatto delle mani di Valerio con il ritrovato Christian, oramai anche lui cresciuto, è un riinizio, una conciliazione fra due piccoli uomini che non erano stati mai nemici, ma uniti da un patto di sangue di eterna amicizia.

Fabrizio Giulimondi



lunedì 7 settembre 2020

"TERRA ALTA" di JAVIER CERCAS (UGO GUANDA EDITORE), VINCITORE PREMIO PLANETA 2019



La letteratura iberica, insieme a quella nordamericana, da anni attorciglia con tentacoli di vivida bellezza il lettore, avvolto nelle spire di passaggi letterari intensi e incantevoli, ricchi di avventurosi stilemi e giochi artistici che seguono le rotte imperscrutabili degli stormi di uccelli.
"Terra Alta" (Ugo Guanda editore), vincitore del prestigioso "Premio Planeta" 2019 e scritto da uno straordinario autore spagnolo, Javier Cercas, è un thriller letterario altamente consigliabile per la piacevolezza narrativa in cui ci si immerge, nella quale una rete di personaggi si incastra nella tela di Penelope di storie, prima risucchiate in sabbie mobili, poi tirate fuori dalla liana salvifica dallo Scrittore. Il registro è acuto sin dalle prime battute e nulla è scontato e lasciato a caso. Il monolitico protagonista è Melchor, amabile anti-eroe ellenico, verso cui il lettore gravita per cerchi concentrici attratto da una forza irresistibile cui non può opporsi: Melchor è una calamita, anzi, è "la" calamita.
Cercas raccoglie i mondi descritti e i caratteri linguistici presenti nelle grandi opere spagnole, assorbendo e facendo proprio, ma in maniera del tutto peculiare e personale, il genius loci che aleggia in Aramburu, Zafón e Cervantes: un tocco divino che accoglie e interiorizza la tradizione per restituirla con luci diverse, regole ruminate, mutati angoli prospettici.
Sullo sfondo, con garbo, si osservano le vicende legate all'indipendentismo catalano e ai crimini franchisti e repubblicani compiuti durante la guerra civile, una sorta di acufene necessario per non distogliere le discendenze dal ricordo. "Terra Alta" scava nel sentimento di giustizia che ognuno di noi possiede in cuor suo, scevro da forme, apparati e codicilli, indagando minuziosamente su quella tensione morale che "fa prevalere le proprie regole sulle regole comuni, la giustizia intima sulla giustizia pubblica, il diritto naturale sul diritto formale, la legge di Dio sulla legge degli uomini.".
Il libro di Javier Cercas è un lungo, imprevedibile e sommo commentario a "I miserabili" di Victor Hugo, una osmosi fra generi letterari, scambio generoso di energie culturali ed intelligenze che, come correnti sotterranee marine, fondono, confondono e mescolano l'800 francese con il 2020 ispanico.  
Non v'è magia più autentica ed emozionante che incontrare la Parola in un Romanzo con la R maiuscola, dove la spregevolezza di uomini meschini è appannata, forse offuscata o, probabilmente, oscurata, dalla nobiltà d'animo di persone non dimentichi della propria umanità.
Fabrizio Giulimondi

lunedì 31 agosto 2020

"LE OMBRE" di "ALEX NORTH"


Le ombre”, secondo romanzo del britannico Alex North (Mondadori), entra a pieno titolo nella scuola letteraria thriller di Stephen King, anche se il fatto che non sia stato scritto dal Genio americano lo si nota, specie nella parte conclusiva.

La trama richiama alla mente “It”, “Pet Sematary” ed altri capolavori del Maestro dell’horror, forse perché l’Autore, pregno della letteratura di King, anche senza volerlo, ne “copia” idee, immagini e suggestioni. Persino in questo romanzo sussistono gli elementi sociali cari alle opere di Stephen King, come il problema del bullismo e del plagio fra adolescenti. Lo stile è scorrevole, agile e ben oleato.
La narrazione prende ma la tensione cala verso il termine come se risentisse di una stanchezza finale, di una scarsa capacità di acciuffare l’idea vincente che faccia svoltare il romanzo, che non irrompe ma, al crepuscolo, frena.
Il bosco, metafora dantesca, è il luogo oscuro che nel suo sistema complesso, misterioso e chiuso, impenetrabile alla luce e privo di orizzonti certi, da sempre riempie di inquietudine l’animo umano, inquietudine che provoca ogni possente bellezza della natura: il bosco è l’estetica dell’interiorità umana più nascosta.
Le ombre” racconta l’oscurità che si cela in ogni essere umano che rimane inarrivabile come una folta macchia di inestricabili alberi.
Fabrizio Giulimondi

venerdì 24 luglio 2020

"SAGGIO SULLA LUCIDITÀ" di JOSÉ SARAMAGO



Saggio sulla lucidità” del Premio Nobel per la Letteratura José Saramago (Universale Economica Feltrinelli) è un calcio nel sedere nella più brutale realtà, resa fintamente fantascientifica: sono passati nove anni da “Cecità” (del 1995, mentre “Saggio sulla lucidità” è stato pubblicato nel 2004) e quattro dalle vicende raccontate in “Cecità”.
Bianco continua ad essere il colore dominante: bianco come la tinta perennemente vista dagli improvvisi e inspiegabili ciechi di massa in “Cecità” e bianca come la scheda riposta nell’urna dall’83 per cento della popolazione della Capitale.
Questa votazione fa saltare il sistema e impazzire il Potere.
Il colpevole di quella che è ritenuta una preordinata sommossa contro la democrazia deve essere trovato costi quel che costi, ed è qui che si palesa l’anello di congiunzione con l’opera precedente.
Questo tipo di letteratura sarebbe stata ascrivibile, prima dell’avvento del Covid, a quella distopica che vede capofila Orwell e Huxley, oppure a quella realistica e magica alla Murakami e Márquez, ma letta oggi diviene neorealista.
La lettura conduce a provare un fastidioso brivido nell’inconscio: è fantasia o potrò accadere sul serio o, peggio, sta già capitando?
La caratteristica estetica della tecnica grafica è sempre la medesima: lo scritto è compatto, senza soluzione di continuità, e le virgole seguite dalle maiuscole indicano l’inizio di una affermazione, di un discorso e di un dialogo; i punti interrompono la conseguenzialità ossessiva delle descrizioni delle interlocuzioni o degli accadimenti, determinando uno stato inizialmente inavvertito di disagio. Il lettore ha pochi secondi per recuperare il fiato, pochi secondi per attingere ossigeno dall’esterno: i pensieri sono pericolosi, come le idee e le parole, e vanno repressi, imprigionati, vietati, ma, attenzione, non in modo esplicito, ufficiale.
Lo faceva concentrato per tenere i pensieri a distanza, per farli entrare a uno a uno, dopo aver loro domandato cosa portavano, il fatto è che coi pensieri non c’è prudenza che basti, alcuni ci si presentano con un’arietta di ingenuità ipocrita e subito dopo, ma troppo tardi, manifestano quanto sono malvagi”.

Fabrizio Giulimondi