“La spazzatura era la prova dell’imperfezione del creato”.
Un
libro che si legge tutto d’un fiato? Detto fatto! “Io sono l’abisso”, ultimo straordinario lavoro del genio italiano
del thriller Donato Carrisi, edito
dalla Longanesi.
Credo
che rinvierete gli impegni piuttosto che smettere di leggerlo.
Carrisi in questo romanzo si avvicina
al compianto Pietro Faletti nel tipo di storia, nella narrazione e nello stesso
titolo, abbandonando le tinte esoteriche e catacombali di quelli precedenti.
Il
Bene e il Male non sono entità nettamente separate come ci vuole far credere Robert
Louis Stevenson nel suo racconto gotico “Lo strano caso del dottor Jekyll e del
signor Hyde”. Il Bene e il Male convivono in noi, si combattono e si
accoppiano, si odiano e si amano. Il Bene vive anche nell’essere più abietto, a
maggior ragione se la sua abiezione è sprigionata da terrificanti abusi subiti
da bambino (“Sono stato partorito da una
fetida piscina, ho imparato a respirare dentro l’acqua sporca. Quel buco per
terra è stato la mia placenta. La melma, il mio liquido amniotico”). Carrisi forgia un personaggio che è lo
sviluppo di un bambino che conosce la più brutale violenza fisica e morale. La
costruzione del protagonista è frutto di un’attenta analisi psichiatrica della
involuzione mentale e comportamentale di un essere umano in cui dominano i
germi del Male instillatigli sin dai primi anni della sua esistenza.
L’invisibilità
(“Era solo una macchia trasparente che
transitava fugace nel loro campo visivo per poi sparire”) è la
consapevolezza che la propria vita non valga nulla e sia inesistente per gli altri. L’unica realtà valevole di interesse è
l’immondizia, attraverso la quale si può conoscere la vera, unica, autentica interiorità
degli altri, quella nascosta al mondo (“L’immondizia
non mente mai”). Sapersi incapaci di vivere una esistenza, perché ci si percepisce
inconsistenti, neanche in grado di provare odio e impossibilitati persino a
sentire un desiderio di vendetta, se non travasando questi sentimenti nell’“altro
da sé” che, però, “è in sé”.
L’uomo
che puliva-Micky evoca alla mente il ragazzo- macellaio del film del 1996 di Gregory
Hoblit “Schegge di paura”: l’essere umano è complesso e nella sua apparente
unicità si nascondono molti “altri da sé”.
Il
trauma sorge dalla scoperta di dimensioni dell’animo del tutto sconosciute:
compassione, empatia, emozioni, affetto. Ci si avverte “visibili” agli occhi di
una ragazzina tredicenne vittima di revenge
porn (“la ragazzina dal ciuffo viola”),
che ha “deluso” la famiglia perché non incarna il “modello” che si aspettavano
di aver partorito: il “mostro” comprende di essere incomprensibilmente considerato
dall’altro, ossia da una Umanità che vede e ha bisogno di lui. Le modalità di
aiuto sono le uniche che conosce. La violenza è salvifica, vista come unico
mezzo per interpretare al meglio l’attenzione verso la vittima della crudeltà
altrui, un’attenzione di cui non si ha contezza. Il demonio Micky è sconfitto, prevale
“la persona che puliva”, evapora la dicotomia distruttiva della personalità che
si ricompone in una sola e angelica via di salvezza prima di morire.
Gli
attori del racconto spesso non hanno nomi ma sono indicati per perifrasi, non
sono persone nella loro interezza ma sono quello che fanno e sono quello che appaiono.
Il nome identifica l’individuo nella sua complessità, cattura l’“in sé” dell’essere
umano, la sua dignità inviolabile; la perifrasi parcellizza e destruttura un
uomo e una donna in singole porzioni mettendone in evidenza soltanto alcune (“La cacciatrice di mosche”): diventeranno
persone vere e proprie solo quando sarà riconsegnato a loro un nominativo.
V’è
sempre un punto della propria esistenza in cui a ognuno è dato un ruolo da
protagonista per la vita dell’altro, un altro anche solo di passaggio, perché
quel “passaggio” servirà a far comprendere all’invisibile di turno che è
visibile a qualcuno, visibile ed essenziale: “Se quel giorno fossi morto, non mi sarei mai salvata”.
Fabrizio Giulimondi