Pubblico un racconto di mia figlia dodicenne Elisa.
Fabrizio Giulimondi
22 maggio 1564
Ho
paura. Non posso fare niente di sospettoso, vengo accusata di stregoneria anche
se sono una persona normale: mi sveglio la mattina, mi alzo, mi vesto, vado
fuori, ma qualsiasi cosa faccio è tutto un sospetto e tutto questo è una cosa
molto seria che potrebbe portare alla condanna a morte. Non si può andare ad
annaffiare fiori o fare passeggiate durante la sera tardi perché questo
potrebbe insospettire la gente. Il terrore per me è sempre più opprimente, devo
stare attenta a molte mosse che insospettiscono uomini, che mi possono
condannare al rogo.
Ci
sono molte donne che solo per essere andate a comprare da mangiare sono state
accusate di aver trasformato il cibo in qualcosa di terribile e sono state
condannate a morte. Il solo pensiero di essere una di loro mi fa tremare.
Un
giorno stavo andando ad annaffiare i fiori nel mio giardino, ma ad un certo
punto tutti si sono girati verso di me sussurrando che io ero una strega e ho
sentito bisbigliare un uomo che avevo stregato un fiore per renderlo più bello.
In quel momento ero piena d’ansia e di terrore. Non sapevo che fare, non potevo
sicuramente scappare né far capire loro che avevo paura, fu terribile,
inspiegabile il mio senso di paura. Sapevo che da un momento all’altro, sarei
potuta morire. Non si può pensare a una cosa così, alla morte che è vicina
anche se tu non sei colpevole, anche se non sei una strega. Non sai cosa fare
in quel momento per far capire loro la tua innocenza.
12
luglio 1566
A
casa ho delle creme. Una volta mia madre era caduta nel bosco, non sapendo come
curarla, ricorsi all’aiuto di quelle creme che una volta avevo preparato.
Ripensandoci, forse avrei dovuto nasconderle. Mi è venuto in mente perché ieri
sera è venuta una donna a bussare alla mia porta, disperata, mi chiese aiuto
per curare il suo bambino che stava morendo. Il suo corpo era ricoperto di
macchie nere, la sua pelle era bianca e fredda come il ghiaccio. Allora provai
a darle una delle mie creme per curarlo e la donna mi ringraziò. Però la
domanda che mi sono posta è stata: “perché è venuta proprio da me a chiedere
aiuto invece che da un’altra donna?” Allora ho pensato che qualcuno potesse
sospettare di me e ho nascosto tutte le creme.
16
luglio 1566
Qualche
notte dopo è venuta a bussare la stessa donna, solo che questa volta il bambino
non era con lei. Era sconvolta. Era infuriata con me e non capivo cosa fosse
successo. Mi strillò contro tanto che le persone nelle altre case si
svegliarono. Ero molto spaventata, anche per il fatto che c’erano molti lampi
per la forte pioggia. La donna andò via piangendo e il mattino dopo i soldati
vennero per prendermi e portarmi via. Mi trascinarono in una carrozza tra la
folla inferocita che gridava ‘a morte’. Fui terrorizzata, non seppi cosa fare.
Avevo capito che fui accusata di stregoneria, ma non capivo per quale motivo.
Mi guardai intorno e vidi la donna che era venuta a bussare da me quella notte.
Mi disse che per colpa dei miei intrugli suo figlio era morto. Io le dissi che
non era colpa delle mie creme e che io volevo solo aiutarla, ma lei non mi
credette e continuò a piangere disperatamente. Chiesi a un soldato dove mi stessero
portando. Lui non mi rispose subito, poi mi guardò con cattiveria e disse:- vi
portiamo davanti al giudice che deciderà se condannarvi a morte o lasciarvi
libera.
Arrivati
al processo, mi sedetti davanti al giudice e accanto alla donna. Così cominciò
tutto. Il giudice disse:- Signora, voi siete accusata di stregoneria, di aver
ucciso il bambino della donna con le vostre cure malefiche. Cosa volete dire in
vostra difesa?
Io
non risposi. Fui così terrorizzata che pensai solo al fatto che era finita e
non potevo fare nulla per difendermi, perché la mia morte era ormai vicina. Il
giudice continuò:- Signora, stiamo aspettando una risposta in vostra difesa, se
non volete rispondere, considererò il vostro silenzio come una ammissione della
colpa.
Abbassai
gli occhi. Non ebbi il coraggio di parlare. Bastò un attimo di silenzio per
decidere del mio destino.
In
quel momento, indescrivibile il mio terrore, mi portarono in una cella. Era
buia, stretta e fredda. Intorno alla mia cella ce ne erano altre. In una si
trovava una donna che piangeva disperata e in un’altra si trovava una donna che
parlava da sola, tremando. Io ero terrorizzata e allo stesso tempo triste e
arrabbiata. Ero arrabbiata con coloro che mi avevano accusata ingiustamente,
ero terrorizzata al pensiero che quella sarebbe stata la mia fine. Ma quella
notte, fra le lacrime, tornò la speranza. Una guardia con il volto coperto si alzò
il cappuccio dagli occhi, mi fece l’occhiolino sorridendomi e si avvicinò
lentamente alla mia cella. Era come se volesse dirmi qualcosa, era come se
tramasse qualcosa e cercasse di nascondersi dalle altre guardie. Mi
tranquillizzai non appena lo guardai negli occhi. Allungò la mano verso la
serratura e l’aprì svelto. Io non ebbi neanche il tempo per ringraziarlo e domandarmi
perché l’avesse fatto, che scappai rapidamente fuori dalla cella. Così come
aprì la mia, aprì anche la cella degli altri e tutti scapparono senza farsi
sentire. La fuga andò per il meglio a tutti e quando ritornai a casa, preparai
i bagagli e mi trasferii immediatamente in un altro paese. Solo che la storia
non finì qui: prima di andarmene ringraziai infinitamente il ragazzo che mi
fece fuggire dalla prigione e gli chiesi il suo nome e lui mi rispose di
chiamarsi Edoardo. Dopo qualche minuto gli chiesi perché fece tutto questo per
noi e mi rispose che lui aveva una madre che fu accusata anche lei di
stregoneria e, piangendo, mi disse che fu condannata al rogo e, data
l’esperienza, volle liberare le povere innocenti perché lui sapeva che le
streghe erano solo un’invenzione. Io ero molto dispiaciuta e non sapevo cosa
fare per ringraziarlo e dimostrargli che mi dispiaceva davvero, allora mi venne
in mente un’idea: gli chiesi se voleva venire via con me. Così pensammo che per
un periodo potevamo vivere insieme, fino a quando non ci innamorammo e ci
sposammo. La caccia alle streghe continuò, ma nessuno venne mai a cercarci e
ora viviamo la nostra vita felicemente.
Elisa Giulimondi
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