La
scrittrice, drammaturga e sceneggiatrice irlandese Emma Donoghue, già vincitrice di prestigiosi premi letterari, dona
al suo pubblico un bel romanzo fra suspance,
introspezione e piece teatrale, “Il prodigio” (Neri Pozza).
Scorrevolissimo,
estremamente gradevole a leggersi, il lavoro della Donoghue mantiene costantemente sullo sfondo la “Grande Carestia” -
che ha afflitto l’Irlanda fra il 1845 e il 1852 - , facendone sentire il puzzo
di devastazione al lettore.
La
narrazione è costellata di dialoghi serrati e intensi, punteggiata di salmi e
passi biblici, ed echeggia il divario caratteriale, culturale e religioso fra cattolici
e protestanti, fra cristianesimo vetusto irlandese e laicità britannica anti-papalina.
I personaggi non esprimono individualità ma incarnano moltitudini di vicende fra
passato e presente, religiosità ancestrale ed illuminismo sprezzante, follia estatica,
esaltazione fanatica e un presagio di modernità.
Una triade
di protagonisti attraverso i quali passa la storia di quei Popoli. La cattolica
irlandese Anna, il cui senso del peccato ne fa demolire il proprio corpo per
giungere monda a Dio. L’infermiera protestante Lib, ossia il vigore della dedizione
e del dovere inglese, la cui razionalità sarà travolta da sentimenti per troppo
tempo sopiti. Il giornalista Byrne, fusione fra ragione e fede, che tutto fa
capire e tutto risolve. Psichiatria e amore, corpi disfatti e anime disperate.
Immagini come dagherrotipi. Tecnica narrativa che lascia senza fiato. Lutto e peccato
colpevole e incolpevole. Decadimento fisico dettagliatamene descritto nella sua
tragicità, una tragicità che il lettore sente su si sé: sono le membra ad
essere state rese immonde e sono queste, pertanto, a dover essere punite, per
colpe non proprie ma altrui. Potente la figura di Anna, il cui inesorabile
disfacimento fisico cela un dramma che tutti sanno ma tutti inabissano nei
sotterranei dell’ignoranza. Grandiosa Anna nella lucidità del suo progetto e
nella determinazione della sua volontà. Anna vittima, Anna carnefice di se
stessa, con un amore immenso in Dio e un commovente affetto per suo fratello Pat,
turpe vittima di se medesimo e demolitore della psiche altrui, da salvare ad
ogni costo dalla dannazione eterna. E’ un racconto di metamorfosi, dove la
marcia crisalide necessita di un nuovo corpo per ottenere una nuova vita. E’ l’assenza
di cibo il viatico perverso per la salvazione, è il tormento la via per la
salvezza. Il cibo come purificazione dal male subito, come una sorta di
Comunione agnostica. Ogni personaggio ha nel suo passato un retaggio di tribolazione
e morte da cui riscattarsi. Il crocevia di tutto è l’undicenne Anna, anzi Nan: “Gli occhi incavati, la pelle flaccida, il
rossore della febbre, le dita cianotiche, gli strani segni sul collo e sulle caviglie.
Il corpo martoriato di Anna era la più eloquente delle testimonianze … ma le insidie
erano lì dentro. Quel tugurio fatto di sterco e sangue, latte e capelli, era la
trappola dove stavano maciullando lentamente una bambina”.
Fabrizio Giulimondi
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