Le
multiformi varietà e differenze di natura culturale possono costituire novelle
“diseguaglianze” che fanno ingresso nello Stato costituzionale moderno. La
“ragione culturale” (includente aspetti religiosi e linguistici) consiste
nell’accordare un trattamento giuridico civile, penale o amministrativo
differenziato in virtù dell’appartenenza di un soggetto ad un gruppo culturale
diverso rispetto a quello della maggioranza. Le “diseguaglianze” di origine
culturale sono generalmente assenti all’interno delle Carte costituzionali, le
quali, spesso, non riconoscono, garantiscono o tutelano i diritti culturali, le
clausole multiculturali, il principio di diversità o di pluralismo culturale.
Anche per queste ragioni la “diseguaglianza” culturale è un “prodotto” principalmente
giurisprudenziale e l’emergente diritto multiculturale è essenzialmente un
diritto pretorio. L’uso esplicito dell’argomento culturale, noto in sede penale
come cultural defence, ha preso avvio
nella giurisprudenza inglese nel 1970 e in quella statunitense nel 1980 e può
dirsi, oramai, un fenomeno diffuso in tutti gli ordinamenti e le società che
sono, di fatto o di diritto, multiculturali.
Viceversa,
il riconoscimento normativo della cultura come elemento degno di protezione
giuridica che assurge al rango di diritto soggettivo in grado di produrre
trattamenti differenziati, ha avuto luogo in prima battuta nel diritto
internazionale in forza del Patto internazionale sui diritti civili e politici
nel 1966, che ha annoverato i diritti culturali fra i diritti umani; nel
diritto interno, invece, lo status dei diritti culturali o del principio
multiculturalista o della diversità culturale, sono ancora incerti e variano
da ordinamento ad ordinamento
La
parola “cultura” è una locuzione polisenso e ricorre testualmente nella
Costituzione italiana e, segnatamente, negli artt. 9, 33, 117 e 118, con significati
ben lontani da quello originale antropologico.
Accezioni
del significato di cultura:
1) una
prima accezione indica una conoscenza specialistica, tecnica, superiore, che si
consegue attraverso un percorso di istruzione ufficiale. A tale accezione fa
riferimento l’art. 33 Cost.(istituzioni di “alta cultura”). Il precipitato
giuridico di tale accezione tecnico - specialistica di cultura è il
riconoscimento del diritto sociale all’istruzione;
2) in un secondo significato, pure ricorrente
nei testi giuridici, la parola cultura indica “la vita intellettuale di una
Comunità”, che ruota intorno ad attività di tipo artistico e letterario, a
scambi di idee e dibattiti. In questa dimensione, la cultura può portare alla
produzione di beni materiali (opere artistiche, film, romanzi) e immateriali
(idee, visioni della società) all’interno di una società (ex artt. 9, 117 e 118 Cost.);
3) risulta assente nella nostra Carta la visione
di cultura più squisitamente antropologica, ossia quella usata nell’ambito del
multiculturalismo in relazione ai gruppi etnico-religiosi di minoranza in una
determinata area geografica, a differenza dell’art. 27 della Costituzione
canadese del 1982 che, per prima, si è impegnata a proteggere il patrimonio
multiculturale di tutti i cittadini canadesi (seguita, successivamente, da una
cinquantina di altre Carte costituzionali).
Fornire
una accezione di cultura in senso antropologico è impresa complessa, avendo la
stessa antropologia elaborato, allo stato attuale, oltre 600 definizioni.
Nonostante
la babele definitoria che regna in antropologia è possibile rinvenire alcuni
elementi ricorrenti nelle molteplici definizioni:
a) la
cultura è un qualche cosa che l’uomo eredita socialmente in quanto componente
di un gruppo sociale, distinto, dunque, da ciò che gli è trasmesso naturalmente
per via genetica e tramite l’istinto; b) la cultura è trasmessa in via
intergenerazionale;
c) è
cultura il comportamento che è dotato di un qualche valore.
A tal
proposito, è importante notare che affinché un comportamento possa essere
considerato culturale non è sufficiente che esso sia regolare, ossia che accada
con una certa frequenza dentro un gruppo: esso deve essere anche approvato e
condiviso dal gruppo, considerato in qualche modo dotato di valore o di una
funzione sociale adattiva utile alla sopravvivenza del gruppo.
L’approccio
del legislatore italiano alla “diseguaglianza” multiculturale è stato finora
occasionale, caratterizzato da interventi episodici miranti generalmente a
proibire singole pratiche, facendo leva su un diritto penale simbolico che
punisca con forza le mutilazioni genitali (l. 7/2006) e l’accattonaggio con
minori (l. 4/2009). Manca una legge generale sul multiculturalismo sulla scia
del Multicultural Act canadese
(1988), così come uno strumento generale di diritto penale come l’attenuante
culturale.
Nel
codice penale peruviano è stato introdotto l’eccezione culturale, costruendo la
scriminante dell’“errore di comprensione culturalmente condizionato”.
In
questo silenzio normativo il ruolo dei giudici penali (e civili) si rafforza
nell’affrontare le diversità culturali, divenendo protagonisti indiscussi delle
trasformazioni della società italiana in senso multiculturale (giudice –
amministratore di giustizia – sociologo – antropologo).
Corte
di Cassazione (mixage di parti motive delle sentenze del 2007, 2008, 2009 e
2011): “E’ necessario prestare attenzione alle situazioni reali al fine di non
criminalizzare condotte che rientrino nella tradizione culturale di un popolo …
fermo restando, però, che se determinate pratiche, magari anche consuetudinarie
e tradizionali, mettano a rischio diritti fondamentali dell’individuo garantiti
dalla nostra Costituzione o confliggano con norme penali che proprio tali
diritti cercano di tutelare, la repressione penale è inevitabile. E’ fin troppo
evidente, infatti che le consuetudini contrarie all’ordimento penale non
possono essere consentite … Le tradizioni etico-sociali di coloro che sono
presenti nel territorio dello Stato, di natura essenzialmente consuetudinaria
benché nel complesso di indiscusso valore culturale, possono essere praticate
solo fuori dall’ambito della operatività della norma penale. Il principio
assume particolare valore morale e sociale allorché - come nella specie - la
tutela penale riguardi materie di rilevanza costituzionale … Si è in presenza,
sotto il profilo della materialità, di un reato, per così dire, culturalmente
orientato, quello che gli americani definiscono cultural offence. Nel reato culturalmente orientato non viene in
rilievo il conflitto interno dell’agente, vale a dire l’avvertito disvalore
della sua azione rispetto alle regole della sua formazione culturale, bensì il
conflitto esterno, che si realizza quando la persona, avendo recepito nella sua
formazione le norme della cultura e della tradizione di un determinato gruppo
etnico, migra in un’altra realtà territoriale, dove quelle norme non sono
presenti. Il reato commesso in condizioni di conflitto esterno è espressione
della fedeltà dell’agente alle norme di condotta del proprio gruppo, ai valori
che ha interiorizzato sin dai primi anni della propria vita”.
La
Cassazione mantiene un atteggiamento rigoroso in tema di gerarchia delle fonti:
”La consuetudine può avere una valenza scriminante ai sensi dell’art. 51 cp,
solo quando sia richiamata da una legge … Anche un popolo allogeno come quello
degli zingari quando si insedia nel territorio italiano, deve osservare le
norme dell’ordinamento giuridico vigente in questo territorio; e non può
invocare i propri usi tradizionali per scriminare comportamenti che sono
vietati dalle norme penali, eccetto il caso in cui questi usi siano richiamati,
e quindi legittimati, dalle leggi territoriali”.
In
alcuni casi, accanto alla norma costituzionale o penale protettrice di beni costituzionali che è in grado di
prevalere sulla consuetudine culturale in base alla teoria delle fonti, la
Corte di Cassazione ha evocato anche una sorta di contro-norma culturale,
individuata nella cultura maggioritaria italiana: “Né diverso criterio
interpretativo può evidentemente essere adottato in relazione alla particolare
concezione socio-sociale di cui sia eventualmente portatore l’imputato, posto
che in materia vengono in gioco valori fondamentali dell’ordinamento
(consacrati nei principi di cui agli artt. 2,3,30 e 32 Cost.), che fanno parte
del visibile e consolidato patrimonio etico-culturale della nazione e del
cotesto sovranazionale in cui la stessa è inserita e, come tali, non sono
suscettibili di deroghe di carattere soggettivo e non possono essere oggetto,
da parte di chi vive e opera nel nostro territorio ed è quindi soggetto alla
legge penale italiana, di valida eccezione di ignoranza scusabile”.
Come
discorso di chiusura della giurisprudenza di legittimità: “Una società
multietnica, che accetta più o meno consapevolmente il multiculturalismo, non
può ignorare una certa dose di relativismo culturale, che consenta di guardare
ad altre civiltà senza giudicarle secondo i propri parametri. Ne consegue che
l’approccio alla delicata questione in esame, per le implicazioni di carattere
etico e giuridico che vengono in rilievo, deve essere guidato da una prudente e
illuminata interpretazione delle norme di riferimento, senza sottovalutare la
peculiare posizione del soggetto coinvolto nell’atto rituale incriminato”.
La
Cassazione italiana - come emerge dai passi sopra riportati - è ambivalente sul punto perché da un lato
costruisce la cultura come consuetudine, però nel contempo le assegna un
proprio valore, per cui è complesso allo stato attuale capire in che modo
l’art. 27 della Costituzione italiana possa trovare applicazione.
Certamente
al multiculturalismo la giurisprudenza italiana - e non solo - oppone i
contro-limiti della tutela di genere e del contrasto al patriarcato
(giurisprudenza c.d. anti-patriarcale e/o femminista), facendo rientrare nella
violenza di genere tutte quelle condotte, seppur riconducibili a tradizioni e
credenze religiose, etniche e culturali “di minoranza”, che ridondano nella
violenza e nella limitazione della autodeterminazione della donna.
Due
proposte presentate, al riguardo, dalla prof.ssa Ilenia
Ruggiu, Autrice di “Il giudice
antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti
multiculturali” (FrancoAngeli
edizioni), tedofora del “costituzionalismo
multiculturale”:
· 1) prima proposta: introduzione di
alcune modifiche al codice di rito penale (e civile) che portino, nei casi in
cui sia interessino un appartenente ad una minoranza etnica, alla attivazione
di perizie che coinvolgano un antropologo che possa esaminare l’eventuale
insorgente conflitto multiculturale (gli antropologi non hanno un albo, ndr).
· 2) seconda proposta: nel caso di
conflitti multiculturali l’Autrice ha individuato in test culturali i precipui
strumenti argomentativi per il giudice in fase decisionale, in modo di
tecnicizzare e rendere più accurata la stessa motivazione della sentenza. Si
tratta di un modo per procedimentalizzare l’iter argomentativo del giudice, una
sorta di guida per tappe obbligate verso la decisione che possa incorporare
alcuni standard antropologici dentro il processo, mettendoli in contatto, in
confronto e in dialogo con le caratteristiche proprie del ragionamento more iuridico, aspirando così a rendere
certi i passaggi argomentativi.
Il
test di supporto all’ attività giudiziaria (e a quella del legislatore
nell’esercizio della funzione normativa) che l’Autrice propone per risolvere le
controversie culturali, combinano elementi strettamente antropologici con
quelli “ponderativi” più tipici del ragionamento giuridico. I due fattori sono
distribuiti secondo una sequenza di passaggi logico-argomentativi che, secondo
l’Autrice, ogni giudice dovrebbe percorrere quando si trova in presenza di un
conflitto multiculturale.
Il
test culturale ha il vantaggio di apportare una certezza almeno di tipo
argomentativo.
In
quarant’ anni di risoluzione di conflitti multiculturali i giudici nazionali,
europei e nordamericani si sono sforzati, spesso con un approccio case by case
(empirico: valutazione c.d. topica), a trovare soluzioni a controversie di
siffatto ordine, non partendo da un preesistente sistema, ma, nei fatti,
producendone essi stessi uno nuovo.
La
giurisprudenza pretoria che ha dato corpo ad un diritto pretorio si è
intrattenuta, per fare qualche esempio, sui seguenti casi concreti: il bambino
rom che mendica (c.d. Manghel);
l’infibulazione praticata sulle bambine in forza a certe correnti di pensiero
musulmane e circoncisione ebraica; la costrizione a casa, la violenza fisica e
morale, lo stupro e omicidio di donne per ragioni religiose islamiste;
l’istituto adottivo nordafricano (kafalah),
non riconosciuto nel nostro ordinamento civilistico; l’uso di droghe c.d.
leggere da parte di alcuni seguaci di alcuni culti; la poligamia (islam, induismo, mormoni); il portarsi al
collo il coltello “sacro” (il Kirpan)
per i adepti della religione Sikh.
In
merito a questa ultima ipotesi non si può non richiamare la sentenza n. 24084
della Corte di Cassazione, I sezione penale, che ha stabilito con chiarezza che: “In una società multietnica, la
convivenza tra soggetti di gruppi differenti richiede l’identificazione di un
nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere.
A mente dell’art. 2 della Carta costituzionale, l’integrazione
non impone l’abbandono della cultura di origine, bensì il limite invalicabile è
costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della
società ospitante. L’immigrato che decide di stabilirsi in una società in cui è
consapevole che i valori di riferimento sono differenti da quella da cui
proviene, ne impone il rispetto. Non è infine tollerabile che l’attaccamento ai
propri valori, anche se leciti secondo le leggi vigenti nel paese di
provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante”.
Fabrizio Giulimondi
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