“La sua (quota) era senz’altro il bosco dei
1500 metri, quello di abeti e larici, alla cui ombra crescono il mirtillo, il
ginepro e il rododendro, e si nascondono i caprioli. Io ero più attratto dalla
montagna che viene dopo: prateria alpina, torrenti, torbiere, erbe d’alta
quota, bestie al pascolo. Ancora più in alto la vegetazione scompare, la neve
copre ogni cosa fino all’inizio dell’estate e il colore prevalente è il grigio
della roccia, venato dal quarzo e intarsiato dal giallo dei licheni. Lì cominciava
il mondo di mio padre”.
“Le otto Montagne” di Paolo Cognetti (Einaudi) non è un romanzo ma un lungo, interminabile
panorama di montagne, una descrizione di boschi, una narrazione di anime di donne
e uomini che in quelle montagne e in quei boschi vagano. Sono vette valdostane,
sono cime nepalesi: “In fondo alla valle,
le vette dell’Himalaya. Allora vidi cos’erano state le montagne all’alba del
mondo. Montagne acuminate, taglienti, come appena scolpite dalla creazione,
ancora non levigate dal tempo”.
“Le otto montagne” è una camminata incantata
e reale, è un andare ed un tornare fra lecci e genziane dove le menti si
perdono per poi ritrovarsi, in un pacato e virgiliano viaggio immaterialmente
corporeo e corporalmente spirituale: “Ogni
volta che tornavo lassù mi sembrava di tornare a me stesso”. Le pagine sono
tratteggiate con odori, sapori e colori mescolati fra di loro da parole impegnate
a trattenerli perché il lettore ne possa godere ad occhi chiusi.
L’opera
di Cognetti è sentore di muschio
bagnato, è fragranza di sottobosco e funghi, è suono di acqua di torrente che
scorre, è profumo di acqua limpida e fresca di ghiaccio appena sciolto che
penetra nel naso, è aroma di terra argillosa. Gli indumenti dei protagonisti
esalano fumo di camino, reminiscenze di braci e cacciagione, fuliggine e punte
di sudore. Il lettore avverte il suono degli scarponi che pestano fanghiglia di
torrente, terriccio di fonte, tracce di resina a ridosso di un arbusto.
Il
periodare morbido dell’Autore conduce altrove, oltre quelle alture che vedete
confuse lungo l’orizzonte con il tramonto del Sole e la Luna che sta appena
sorgendo.
“Da mio padre avevo imparato, molto tempo
dopo avere smesso di seguirlo sui sentieri, che in certe vite esistono montagne
a cui non è possibile tornare. Che nelle vite come la mia e la sua non si può
tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della
propria storia. E che non resta che vagare per le otto montagne per chi, come
noi, sulla prima e più alta ha perso un amico”.
Fabrizio Giulimondi
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