domenica 1 settembre 2019

"IL SUSSURRO DEL MONDO" di RICHARD POWERS (LA NAVE DI TESEO): PREMIO PULITZER 2019


C’erano sei trilioni di alberi nel mondo, quando gli uomini hanno fatto capolino la prima volta. Metà è rimasta. Un’altra metà scomparirà nel giro di un centinaio d’anni
Il Premio Pulitzer 2019 “Il sussurro del mondo” (La nave di Teseo) di Richard Powers è approdato nelle nostre librerie carico di presagi, vibrazioni e attese, romanzo la cui lettura dovrebbe essere preceduta o accompagnata dalla visita dei grandi parchi californiani fittamente costellati di sequoie.
Non è facile incunearsi fra i cunicoli ombrosi e umidi di un lavoro complesso, impegnativo, articolato, gravido di idee, pensieri, ampollosi ghirigori linguistici, spiritualità e panteismo. La sua lettura è feconda quanto defatigante.
Tagone ha detto, Gli alberi rappresentano l’infinito sforzo umano di parlare con i cieli in ascolto”.
Lo stile barocco e salmodiante è assediato da turbinii di parole che rischiano di opprimere la fluidità del racconto, rimanendo talora schiacciato da esse come una casupola da un baobab. Le parole stormiscono inebriando o stordendo il lettore. La narrazione è offuscata dalla lunghezza che può apparire eccessiva storpiando l’incisività narrativa: un alto voltaggio che invece di esplodere su un mozzicone di filo di rame si sbrodola su estensioni troppo vaste. Visioni allucinatorie e oniriche, ambientazioni surreali e richiami biblici sono percorsi da un linguaggio ricercato sino al più puntuto tecnicismo terminologico. L’Autore sembra quasi perdersi nella parola, ingarbugliandosi come dentro una rete da pesca. La storia si immerge in una nebbia che si infittisce nell’incedere della trama, per poi apparire nuovamente in una valle rischiarata dalla luce fioca dell’imbrunire e divenire dopo più intensa, il giorno successivo, nell’ affacciarsi del mezzodì. La scrittura si fa affabulazione botanica avvolta in un grumo di antropomorfismo vegetale e di illusioni pareidolitiche. L’ambiente è l’alfa e l’omega e l’uomo ne è solo un segmento, ma non il più importante, il retroscena, il proscenio, il palcoscenico, il sottofondo e la colonna sonora, un frusciar di foglie, un batter d’ali, carnefice e vittima di se stesso. La storia sembra fuori dal tempo e il lettore viene riacciuffato da Kronos solo grazie a fugaci richiami all’11 settembre e alla protesta di Occupy Wall Street. Dalla canopia l’Autore guarda in direzione della memoria di cui gli alberi sono antichi coreuti, mentre volge lo sguardo verso un futuro sradicato dall’Umanità.
Powers è agli antipodi di Kant: l’uomo non è fine a se stesso ma dentro una dimensione visibile e invisibile in seno alla quale opera, spesso, troppo spesso, come agente patogeno.
Le ideologie imprigionano le menti; le galere imprigionano i corpi; le invalidità imprigionano le muscolature che, disperate, sprigionano la loro energia attraverso la mente che costruisce nuovi mondi e nuove nature, esistenti solo nella dimensione immaginifica del web.
L’olocausto delle piante: “La vita si surriscalderà, i mari si alzeranno di livello. I polmoni del pianeta verranno strappati. E la legge permetterà che succeda, perché il torto non è mai stato abbastanza imminente. Imminente, alla velocità delle persone, è troppo tardi. Imminente va giudicato dalla legge alla velocità degli alberi”.
La solitudine degli uomini e in antinomia con l’armonia delle piante. Gli alberi sono esseri viventi e le foreste comunità che si scambiano doni materiali e immateriali al suo interno e con il resto del Mondo. L’albero è Xenia e deve essere curato ma, prima ancora, v’è la necessità primigenia di guarire l’essere umano.
Fuori, nel putridume, nella decomposizione, i ceppi, la morte lussureggiante e prolifica intorno a loro, dove cresce un terribile verde, che si spande in tutte le direzioni con le sue spirali mutanti”.
Fabrizio Giulimondi



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