Il grande Autore thriller Donato
Carrisi si trasforma per la seconda volta in regista dopo la sua opera prima
"La ragazza nella nebbia": "L'uomo
del labirinto", tratto dal suo omonimo romanzo del 2017 (la cui
recensione scritta al tempo pubblico nuovamente).
Chi più di uno scrittore può rendere al meglio in un film la
propria fatica letteraria?
E Donato Carrisi non
solo ci riesce perfettamente ma addirittura compie un prodigio: la pellicola
supera il libro.
Due mostri sacri del cinema italiano e statunitense, Toni Servillo e Dustin Hoffman, insieme ad una prodigiosa Valentina Bellè e a un sempre bravo Vinicio Marchioni, narrano una storia che è la somma di più storie
che si intersecano, si intrecciano, si confondono, si sostituiscono fra di loro
e l'una all'altra. In un labirinto spaziale si muovono labirinti dell'anima,
del cuore e della mente. Nulla è come appare. Nulla è come sembra. Il pubblico presti
attenzione ad ogni singola scena. Le tinte purpuree riprendono il cinema di
Dario Argento e l'interpretazione della Bellè
evoca quelle di ragazze indemoniate. La scenografia è avvolta in una atmosfera
immaginifica, onirica, sfuggente, eterea. Lo spazio è metaforico. Il tempo solo
apparente.
Lo spettatore entra in un labirinto dove stenta ad uscire.
Fabrizio Giulimondi
Recensione al libro
Nelle librerie è approdato
l’ultimo lavoro letterario di uno dei maggiori Autori thriller europei, “L’uomo
del labirinto” di Donato Carrisi (Longanesi). I successi di vendite e traduzioni in molti idiomi
de Il suggeritore, Il tribunale
delle anime, L’ipotesi del male, Il cacciatore del buio, Il maestro delle ombre e,
non ultimo, La ragazza nella
nebbia - di cui Carrisi è stato anche
registra della trasposizione cinematografica -, hanno lanciato l’eclettico e
geniale Scrittore nel panorama internazionale.
“L’uomo del labirinto”
immerge di nuovo il lettore nel buio catacombale di labirinti sotto città che
restano senza nome e senza connotazioni geografiche, in sotterranei privi di
luce che si dipanano lungo la narrazione speculare di un sadico consolatore
rinchiuso e rinchiudente le altrui esistenze in un reticolato nascosto nella
terra che, nell’attraversare il deep
web, risucchia e infetta i “figli del buio”.
Lo stile è meno di Carrisi e
più di Faletti, al cui Niente di
vero tranne gli occhi l’osservatore rimanda la mente quando si
imbatte in un detective affezionato frequentatore di un trans. Lo schema
narrativo si avvicina a quello del film Saw (e dei suoi sequel)
di James Wan, con innesti evocativi alla pellicola del 1999 8mm – Delitti a luci rosse di
Joel Schumacher. L’investigatore privato Genko è la storpiatura nel cognome
dell’ispettore Ginko, che trascorre invano la sua vita a catturare Diabolik e,
al pari di Ginko, l’investigatore protagonista del romanzo cerca da quindici
anni di trovare una ragazza scomparsa nel buio. Genko, però, ignora che v’è in
corso una staffetta del male che ha lo stesso sapore ricostruttivo che
registriamo ne Il tocco del male,
diretto nel 1998 da Gregory Hoblit.
Il coupe de theatre finale lascia
aperto una probabile prossima opera che si ricongiungerà alla prima: Il suggeritore.
Meno mordace, in certi
passaggi il racconto risulta un poco debole per la inspiegabile capacità
dell’“attore principale” di giungere troppo facilmente a soluzioni e testimoni,
pur rimanendo lo stile agile e accattivante, punteggiato da un linguaggio ben
lungi da quello ricercato de Il
cacciatore del buio e Il
maestro delle ombre. L’itinerario immaginifico è lontano dalle
passate atmosfere misteriose ed esoteriche. Le tinte claustrofobiche della
storia si abbracciano con toni turpi che occhieggiano ad orripilanti pratiche
pedofile (mai ellenicamente esplicitate) e a degenerazione porno- sessuali.
“Non esiste azione umana che non lasci tracce. Specie se si tratta di un
atto criminale”.
Fabrizio Giulimondi
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