“Norimberga” di James Vanderbilt è il terzo film hollywoodiano sullo storico
processo (20.11.1945-1.10.1946) - svoltosi nella città tedesca di Norimberga
(dove il 15 settembre 1935 fu varata la legislazione antisemita germanica) - che
mise alla sbarra ventidue (un ventitreesimo si era suicidato prima del suo
inizio e un altro ancora fu giudicato in contumacia) fra i più importanti gerarchi
nazisti, primo fra tutti il Reichsmarschall Hermann Göring, numero
due del regime nazionalsocialista, Vice-Cancelliere del Reich e creatore della
polizia politica segreta Gestapo.
Le due
pellicole precedenti – con molti punti in comune – sono del 1961 (“Vincitori e
vinti” di Stanley Kramer) e del 2000 (“Il processo di Norimberga” di Yves
Simoneau).
“Norimberga” è tratto dal libro del 2013
di Jack El-Hai "The Nazi and the
Psychiatrist: Hermann Göring, Dr. Douglas M. Kelley, and a Fatal Meeting of
Minds at the End of WWII" e narra nel dettaglio il rapporto creatosi
fra Göring (interpretato dal “gladiatore” – questa volta in versione malvagia e
luciferina - Russell Crowe) e lo
psichiatra che gli fu affiancato durante la detenzione (“Freddie Mercury” Rami Malek).
La
icastica locuzione adoperata da Hannah Arendt “la banalità del male” riferita
ad Adolf Eichmann, può essere, mutatis
mutandis, applicata ad Hermann Göring, il cui fascino sottilmente penetra l’intelletto
dello strizzacervelli Douglas Kelley.
La didascalica
narrazione cineastica coinvolge e convince lo spettatore, per interpretazione e
contenuti, comunicazione verbale e specie non verbale.
Indubbiamente
di grande suggestione artistica sono le punteggiature in bianco e nero di pochi
secondi che ritraggono il Tribunale internazionale (composto da giudici statunitensi,
britannici, francesi e sovietici) in modo estremamente simile alle immagini di
repertorio del tempo.
Peccato
per due sbavature: una di natura ideologica che vede un insulso attacco – non troppo
sotterraneo – a Papa Pio XII; l’altra di ordine storico, collocando le
impiccagioni dei dodici condannati a morte il 1° ottobre 1946, mentre sono
avvenute la notte fra il 15 e il 16 ottobre 1946, in attuazione delle sentenze emanate
la notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre 1946.
La
scena delle impiccagioni (volute al posto delle fucilazioni dai componenti
sovietici del Tribunale) è indubbiamente carica di pathos tragico nella loro crudezza e verosimiglianza.
L’interrogativo
posto da Göring al “suo” psichiatra, seppur rivolto da un “demonio”, umano solo
nelle sue apparenze esteriori, rimane a galleggiare nella sala: con quale “forza
morale” chi ha fatto vaporizzare centinaia di migliaia di civili giapponesi a
Hiroshima e Nagasaki giudica gli altri? Con quale parametro sono giudicate le
camicie brune da chi, come gli stalinisti, adoperano metodi molto simili a
quelli hitleriani?
L’opera
rifugge la mostrificazione delle Croci Uncinate per evitare di renderle diverse
da noi e far pensare ai posteri che è stata una “unica” irruzione della
demonologia della storia. È proprio la storia ad insegnare che questi “mostri”
sono in mezzo a noi, vivono di noi e con noi, noi possiamo collaborarvi
consapevolmente o inconsapevolmente e potremmo esserlo noi stessi senza
saperlo, non essendosi ancora verificate le condizioni perché la nostra “monstrità”
si palesi.
Il
film di James Vanderbilt ci fa
riflettere sul se nel recentissimo periodo pandemico non stava avvenendo, con
altre forme e modalità, qualche cosa di simile, nell’odio sociale e di Stato
nei confronti dei c.d. “No-Vax”.
Un ultimo
appunto può essere di interesse degli studiosi di diritto e si collega nel
preambolo del film alla figura della Pubblica Accusa rappresentata dal giudice Robert
H. Jackson (Mike Shannon): la
necessità di individuare la base normativa, giurisprudenziale e dottrinale, unitamente
ai principi sovranazionali, su cui costruire gli organi giudicanti e inquirenti
insieme alle regole processuali e le prescrizioni sostanziali penali.
Il
film, semplice e complesso nello stesso tempo, da vedere e far vedere segnatamente
alle scolaresche, ci impone di meditare al di là di schemi precostituiti, costringendoci
ad una doverosa e, direi, fatale attualizzazione del racconto.
Fabrizio Giulimondi