martedì 15 ottobre 2024

"L'OLIVO BIANCO" di CARMINE ABATE (ABOCA)

 


L’olivo bianco” (Aboca) di Carmine Abate - prolifero scrittore arbëreshë vincitore del Premio Campiello (2012) e di numerosi altri prestigiosi premi letterari -  fornisce al pubblico un’altra prova della sua poetica bucolica e della sua lirica della terra, degli alberi come entità spirituali, del dialogo silenzioso e affascinante della natura con l’uomo, delle famiglie che tramandano storie perché il futuro non le dissipi. Al pari delle piante che resistono alla furia delle acque grazie alle proprie radici, la letteratura di Carmine Abate si oppone ad un modernismo cieco, algido e anonimo.

Le pagine di Abate profumano dei fiori calabresi e sono saporitosi come le pietanze preparate dalla madre.

Spillace e Hora sono i due volti sognanti di Carfizzi, paese natale di Abate, luogo dell’anima, spazio metafisico delle memorie e degli affetti. Ogni storia, in fin dei conti, è una storia d’amore: Luca per la sua rarità botanica, l’olivo bianco; Carmine per la sua Elena; il padre di Carmine per quel mondo trasudante fatica, odori, sudore e bellezza; la madre per la sua famiglia e il suo cibo.

L’interpolazione di idiomi calabresi rende melodioso l’incedere del lettore, che avverte la sensazione di mettere le proprie mani sotto la colata soffice e calda della pasta mentre esce dal macchinario; percepisce le proprie mani scavare una terra pastosa e carica di umori e profumi, presagio della pianta che verrà.

Sembra di vederli quei boschi così gagliardi, lussureggianti, selvaggi e rigogliosi.

Sembra di respirare quell’aria così fina, tersa e pregna di fragranze pungenti e inebrianti.

I grafemi sprigionati dalla penna dell’Autore espandono i polmoni facendoli respirare un venticello primaverile e genuino, che “sa di erbe aromatiche, di mare, di pomodoro e mandorla fresca”.

   

Fabrizio Giulimondi

 

 

domenica 13 ottobre 2024

"ALMA" di FEDERICA MANZON (FELTRINELLI): VINCITORE DEL PREMIO CAMPIELLO 2024

 


“…zeppo di bauli, valige, macchine da cucire, ma soprattutto scatole di vestiti, libri e giocattoli, di fotografie. I tesori degli esuli scappati dalle truppe titine. Un deposito di mondi abbandonati in tutta fretta e mai ricostruiti altrove”.

Il romanzo vincitore della edizione 2024 del Premio Campiello, “Alma” di Federica Manzon (Feltrinelli), è un lavoro complesso che parte come un diesel di prima generazione per acquistare velocità solo dopo aver superato la prima metà.

I personaggi assumono nitore nel calar del sipario ma è proprio sul calar del sipario che l’opera scatena la sua potenza e merita il secondo premio letterario italiano.

Il Maresciallo Tito e il suo comunismo differente da quello sovietico naufragano nell’Isola Calva. La menzogna, la difesa dalla memoria e la decomposizione della lingua serbo-croata “iugoslava” sono i collanti delle storie che passano dinanzi agli occhi del lettore.

Comunismo, nazionalismo estremo e ferocia belluina slava fanno da detonatore alla guerra balcanica che fra il 1991 e il 2001 riempie di luciferino orrore i territori delle Repubbliche che via via si rendono indipendenti dopo la morte di Josip Broz nel 1980.

Esiste un “di qui” e un “di là”: da una parte Trieste, Gorizia, il Friuli, Roma, mentre dall’altra ci sono il Carso, la Dalmazia, l’Istria, la Slovenia, la Croazia, la Bosnia, la Serbia. I protagonisti si spostano convulsamente fra l’uno e l’altro luogo -  non solo spazi geografici ma anche antropologici e metafisici - e lo spostamento determina confusione in chi legge: è come se le persone fossero sradicate dalle aree dove regna la propria azione, è come se queste persone non appartenessero più ad una dimensione spaziale determinata. È difficile dare un nome alle città che fungono da set, perché non sono indicate direttamente ma tramite i toponimi delle strade, delle piazze e dei parchi.

L’orrore è dietro e a fianco degli attori del racconto ma non dentro di loro come se ne fossero solo sfiorati: “Ad Alma viene da vomitare, deve essere faticoso vivere dovendo essere figli della nazione, guerrieri, sanguinari, instancabili stupratori e sprezzatori delle donne”.

Vukovar, Sarajevo, Srebrenica, Belgrado, ustascia e cetnici, croati, serbi, bosniaci, sloveni: un miscuglio intricato di etnie, sangue e religioni che si odiano di un odio ancestrale che dà vita ad una violenza oltre l’immaginazione umana; i croati si divertono a giocare a calcio con le teste dei serbi e i serbi si divertono ad ammazzare i bambini dinanzi alle madri per vederne la reazione e, in mezzo, vi sono miriadi di donne terribilmente stuprate.

La Manzon del suo “Alma” ne ha fatto un diorama di ciò che è stato e le pause, i silenzi e i non-detto riempiono di particolare significato questo diorama.

Fabrizio Giulimondi

sabato 12 ottobre 2024

"NON DIFENDERTI, ATTACCA. 50 REGOLE DI COMUNICAZIONE POLITICA PER SPIN DOCTOR E ADDETTI STAMPA” di CARLO MELINA (HISTORICA GIUBILEI REGNANI)

 


Non ascoltarli, gli ignoranti sono loro. Inseguono un elettore razionale e disponibile al confronto, che nella realtà non esiste. Danno fiato alla bocca, mentre tu fai vibrare l’anima”.

Carlo Melina, giornalista a tutto tondo e esperto professionista della comunicazione, ha scritto questa breve antologia di esperienze vissute sul campo della Politica “sangue e merda”: “Non difenderti, attacca. 50 regole di comunicazione politica per spin doctor e addetti stampa” (Historica Giubilei Regnani).

Si fa un gran parlare di comunicazione ma le regole che la governano sono in pochi a conoscerle veramente e questo volumetto ce le spiega con grande intelligenza e in modo sornione e anche divertente.

In “Non difenderti, attacca” non ci sono discorsi professorali e barocchi, noiosi e grigi ma consigli, “furbate”, dritte, trucchetti, segreti del mestiere. I suggerimenti posti in corsivo alla fine di ogni capitolo e i brevi pensieri dei grandi giornalisti della nostra epoca rendono didattica e didascalica la struttura del lavoro, facilmente fruibile a chiunque ed estremamente efficace per capire le tante “chicche” del mestiere di comunicatore politico.

La comunicazione è empatia, emozione, seduzione. La comunicazione è fatta di colori a tinte accese, non fosche e plumbee. La comunicazione è fatta di storie, e le storie si compongono di parole e immagini, e le immagini si catturano con la fotografia.

L’Universo è fatto di storie, non di atomi” (Muriel Rukeyser).

La teoria si evince dalla moltitudine di esempi di vita professionale vissuti da Melina, che analizza ed esamina aneddoti di campagne elettorali locali e nazionali e tranci di vicende istituzionali con l’aiuto di Rudi (l’elettore medio) e Pepito Sbazzeguti (un politico qualunque). L’Autore dalla propria esperienza dipana i risvolti concreti, gli sviluppi favorevoli e quelli negativi, illustrando come un concetto possa essere espresso in modo pregiudizievole o a vantaggio della personalità politica a seconda dell’uso che si fa delle parole, della quantità adoperata e della loro collocazione nel testo.

Il lessico scelto per descrivere un evento, come l’inquadratura di una fotografia, impone un punto di vista sulla realtà a cui si riferisce. Un framing, dicono gli psicologi della comunicazione, che determinerà l’interpretazione del messaggio da parte del pubblico. “Marocchino sgozza la moglie” è molto diverso da “Femminicidio fra le mura domestiche”.

Imparare dagli errori per farne altri e apprendere anche da questi ultimi.

Passione, rigore, lealtà e astuzia.

I vostri nemici hanno un bisogno disperato che voi reagiate. La ritirata li fa infuriare…”(Robert Greene)

Carlo Melina indica in modo simpatico e pragmatico il percorso stilistico da seguire nel redigere un comunicato stampa o qualsiasi altro “pezzo” interessi l’Autorità per cui si lavora.

Scienza, tecnica e burocrazia utilizzano un linguaggio ostile, esclusivo. Il tuo politico deve usare quello dei cittadini. Non vive in un regime, il suo destino dipende dagli elettori. Se Rudi non lo capisce, non lo voterà”.

Consiglio convintamente di leggere questo libello non solo agli addetti ai lavori (comunicatori, giornalisti, uffici stampa, portavoce, spin doctor), ma anche ai tanti curiosi che vogliono conoscere altri mondi, mondi che, in qualche modo, li toccano in realtà da vicino.

Fabrizio Giulimondi

sabato 5 ottobre 2024

"IL TEMPO CHE CI VUOLE" di FRANCESCA COMENCINI

 


Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini è un’opera di non comune intensità sul rapporto speciale che legava Francesca con il padre, l’intramontabile regista Luigi Comencini.

È un racconto fiabesco, onirico, emozionante, tenero, dove la magistrale interpretazione di Fabrizio Gifuni (Luigi Comencini) e Romana Maggiora Vergano (Francesca Comencini) sottrae lo spettatore alla realtà per introitarlo nel mondo immaginifico del cinema, facendolo allo stesso tempo rimane con i piedi ben piantati a terra.

La macchina da presa entra nella intimità della dinamica relazionale di un padre con la figlia, fissando sullo sfondo la tragedia del terrorismo e ponendo in primo piano lo stato di tossicodipendenza di Francesca. Dramma e tenerezza si potenziano reciprocamente, si abbracciano e si intrecciano. Le immagini sognanti del grandioso Pinocchio -  trasmesso dalla Rai nel 1972 - si decompongono per fare spazio ai crimini stragisti di Piazza Fontana e al rapimento e uccisione di Aldo Moro.

Non c’è moglie né madre, non vi sono figlie né fratelli, ma solo un lungo fermo-immagine sul padre insieme alla figlia, la figlia insieme al padre, entrambi avviluppati nella fantasiosa creazione prodotta dalla cinepresa.

Il rapporto fra padre e figlia è simbiotico e salvifico e gli sguardi, le espressioni mimiche e l’atteggiamento corporeo parlano un linguaggio metafisico fatto di parole espresse e non espresse, ma sempre morbide, delicate e carezzevoli anche quando sono dettate dalla disperazione.

Le inquadrature - che si realizzino in campi lunghissimi, dall’alto verso il basso o sfumando i contorni similmente ad immagini ipnagogiche nel cedere al sonno -  danno sempre forma ad un’arte incontrovertibile.

La recitazione ossiede la capacità di rapire chiunque, una recitazione corporea e incorporea, visibile e invisibile, tangibile e intangibile, composta da dialoghi, soliloqui interiori, sguardi amorevoli e tragici, lacrime e sorrisi.

Le ultime sequenze sono tranci di poesia che mutano in figure nuotanti in mezzo all’aria per congedarsi nella somma emozione: la morte del padre accompagnata dalla musica indimenticabile del Pinocchio di Fiorenzo Carpi.

Fabrizio Giulimondi






venerdì 20 settembre 2024

"LA CASA DEL MAGO" di EMANUELE TREVI (PONTE ALLE GRAZIE): CINQUINA PREMIO CAMPIELLO 2024

 


Questa è la caratteristica fondamentale che ci distingue dagli altri animali, più ancora del riso o del linguaggio. E il non sapere esattamente ciò che si vuole deve essere per forza la conseguenza di un potente istinto di conservazione. Tanto è vero che nemmeno mio padre, nemmeno i più illustri guaritori della storia, avevano mai potuto mettere impunemente le mani sul meccanismo umano dell’inconsapevolezza: modifica disabilitata.”.

(Ponte alle Grazie) – “cinquina” del Premio Campiello 2024 - è un romanzo bellissimo e oracolare, semanticamente alchemico e narrativamente amletico, con al centro della scena la solitudine come chiave di lettura della esistenza umana, interpretata dal padre del protagonista, dal protagonista e da Raoul, personaggio creato dalla immaginifica capacità creatrice di Beppe Fenoglio. La solitudine è salvifica ed è il retrobottega presente in ognuno di noi. La Degenerata, la Vistatrice, Paradisa-Gatta Morta e Miss Miller sono solo meteore che accompagnano la solitudine senza mai però intaccarla. La Visitatrice è una metafora, un simbolo, una allegoria, una chiazza di luce misterica che incuriosisce il lettore, che continuerà ad interrogarsi su chi lei sia veramente ben oltre la fine del romanzo: la coscienza? Il subconscio? L’inconscio?

La casa del mago” narra di un padre meraviglioso e misterioso; di un padre che occupa lo spazio dentro le linee di un esagramma e rappresenta lo zero al termine della cifra; di un uomo avvolgente tutta la storia, figura centrale fra figure centrali. “La casa del mago” ripercorre rimembranze familiari ancestrali che divengono familiari anche al lettore tanto sono vicine, vivide e reali.

Il “figlio del mago” percorre un dedalo ipnagogico di pensieri, fra Freud e Jung, simile al labirinto di dislivelli, vicoli, passerelle, stradine e ponticelli che disegnano Venezia. Questo lavoro di Trevi è un mosaico di parole e pensieri, dove le parole aggottano i pensieri e i pensieri le parole come il navigante la propria imbarcazione.

Scrivendo, mio padre rimediava a una mancanza di percezione diretta e immediata della vita; disegnando, andava nella direzione contraria: quella della evaporazione della coscienza di sé e del mondo.”.

Fabrizio Giulimondi

venerdì 30 agosto 2024

"IL COGNOME DELLE DONNE" di AURORA TAMIGIO



Vincitore del Premio Bancarella edizione 2024 “Il cognome delle donne” (Feltrinelli) di Aurora Tamigio è un bel romanzo che parte in maniera elefantiaca e disorientante per sviluppare nel corso d’opera in modo maggiormente incisivo, convincente, coinvolgente ed emozionale. Ideologicamente orientato, dove gli uomini sono prevalentemente mascalzoni, violenti e stupratori, “Il cognome delle donne” sviluppa letterariamente il film di grande successo di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”. Ricordando nello stile narrativo la quadrilogia “L’amica geniale” di Elena Ferrante, la Tamigio ripercorre la storia di una famiglia, da nonna Rosa alla figlia Selma sino alle tre nipoti Patrizia, Lavinia e Marinella, anche attraverso il richiamo ad eventi storici, politici, sportivi e di costume, alle stragi di mafia e agli attentati terroristici, dal fascismo ai giorni nostri.

La pigmentazione linguistica sicula si fonde con l’idioma italico dando una impronta di ragguardevole musicalità, una sorta di arpeggio idiomatico-sinfonico in cui le sonorità vanno a braccetto con la prosa neo realista, altalenandosi le storie fra letteratura, musica, cinematografia neo-realista de sicana e le interpretazioni di grandi stelle al pari di Virna Lisi. La sicilianità palermitana non solo costituisce l’ambientazione del romanzo ma anche il luogo sinergico fra diverse forme di arti nel loro progredire e mutare nel corso dei lustri.

La violenza, i soprusi e gli abusi percorrono lo sviluppo narrativo come la corrente elettrica il filo della luce. Ciò che prevale, però, è la determinazione nell’amore, nell’unione e nel ricordo.

L’amore oltrepassa la coltre del tempo e rende indistinguibile il confine fra il mondo dei vivi e quello dei morti che vivono ancora, ma da un’altra parte, invero non così distante da quella dei vivi.

Il cognome delle donne” è un lungo dialogo fra il visibile e l’invisibile, fra chi è ancora e chi è già andato, fra Rosa e suo marito Sebastiano Quaranta, fra Selma e le figlie Patrizia, Lavinia e Marinella, ragazze nascoste nelle pieghe del tempo, legate da un vincolo di amore eterno e verace, autentico e aspro.

Questo romanzo è “come prima di un temporale, quando il vento è elettrico e le veneziane sbattono un colpo dopo l’altro sul davanzale delle finestre”.

Chi legge partecipa della morte di Selma grazie a pagine memorabili fra corporeità e incorporeità. La tragicità di questo come di altri eventi si avverte materiale, percepita dai sensi umani. I sentimenti, le emozioni, i tratti salienti delle personalità delle donne e degli uomini che scorrono innanzi agli occhi del lettore sono “con-vissuti” dal lettore: lo sdegno, l’orgoglio, l’alterigia, la dignità, la risolutezza, la costumanza, la piccineria non sono espressioni impalpabili dell’animo ma appartenenti al reale, dimensioni dense avvisate dal corpo prima che dallo spirito.

Lo sdegno, l’orgoglio, l’alterigia, la dignità, la risolutezza, la costumanza si inverano e vivono non solo nella fisicità delle famiglie Maraviglia, Incammisa e Passalacqua, ma anche nell’intimità del lettore, che spesso la rifugge.

Fabrizio Giulimondi


martedì 27 agosto 2024

"COME L'ARANCIO AMARO" di MILENA PALMINTERI



L’essere umano privato delle sue radici è dimezzato senza che se ne accorga.

Quello stato di inquietudine che, talora, rasenta l’angoscia potrebbe avere la propria ragione su questa assenza, spesso avvertita negli strati profondi della coscienza ma divelta dalla propria razionalità. Un malessere che non si riesce a spiegare ma che insiste nelle esistenze di alcune persone: da dove vengo? Quali sono le mie reali origini? Chi è mio padre? Chi è mia madre? Quale è la mia autentica Terra natia?

È questo l’humus da cui è composto il retroterra della nostra dimensione quotidiana.

Milena Palminteri morbidamente narra questo stato percettivo, spesso inavvertito a livello di corteccia celebrale, in “Come l’arancio amaro” (Bompiani).

In “Come l’arancio amaro” il racconto si snoda in un lungo percorso interno all’anima tramite una complessa storia personale e familiare, originata negli albori del fascismo e approdata nel 1965 e che ha come set una Sicilia ancestrale e nobiliare, afosa e antica, dove le “serve” sono usate ad uso sessuale del “padrone”, “serve” che subiscono questi fatali abusi con vendicativa rassegnazione.

Ogni personaggio possiede un carattere marcato e, per quanto piccolo e agli angoli della scena, non v’è uomo o donna, giovane o vecchio, povero o ricco, che non dia un contributo determinante alla trama, che non spicchi con la propria specifica configurazione umana. Forse non esistono partecipazioni secondarie o comparse ma tutti sono resi protagonisti e co-protagonisti, intorno ai quali gravitano vicende che si vanno ad incastonare in altre vicende, e ancora e ancora.

L’Autrice parla di una umanità composta dai tanti individui che si affastellano nel romanzo, tutti legati da un unico filo conduttore: l’essere vittime, prima di tutto, di se stessi.

Come l’arancio amaro” riprende la grande tradizione della letteratura verghiana del verismo siciliano.

La tragicità di taluni accadimenti non è mai sospinta verso tinte fosche, sempre attenuati dalla irriverenza, dalla capacità sorniona e sfottente, dal cinismo o dalla dignità di attori che riescono a smussare i contorni cinerei dei fatti.

L’umanità nella sua declinazione oscura, furbesca e canzonatoria modella i personaggi che sembrano provenienti da un lontano passato, quello forgiato da commediografi Terenzio e Plauto, immersosi poi nelle acque veneziane di Goldoni per assumere, infine, le sembianze drammaturgiche e veristiche insulari.    

Le pagine sono pregne dei sapori della cucina siciliana e degli odori della zagara, autentiche colonne “sonore” gustative e olfattive del romanzo che non è fatto solo di inchiostro, ma anche di sensazioni corporali. Forse è lo stesso inchiostro che assorbe i sapori culinari e il sentore della pianta di arancio amaro quando è in fiore: ”…io dell’arancio amaro conosco solo le spine e oramai non mi fanno più male. Ma il profumo del suo fiore bianco è il tuo, ed è quello della libertà”.

Quale libertà? Quella di donne che prendono coscienza di cosa esse realmente siano e di quanto possano dare, prima di tutto, a se stesse: “Nessun albero come l’arancio amaro merita il nome di “pianta madre”: impavida, resiste a tutte le intemperie per compiere la sua missione, rendere forte e rigogliosa la nuova pianta che è altra da lei eppure da lei germoglia.”.

Fabrizio Giulimondi