“Il Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald è un romanzo fra i pesi massimi della letteratura statunitense,
pubblicato nel 1925, a cavallo fra la
fine della Prima Guerra Mondiale (1918) e il periodo della Grande Depressione
(1929-1933).
Io ho imparato a conoscere “Il Grande Gatsby” prima attraverso il film che vede Robert
Redford nelle parti di Jay Gatsbay, ricco e misterioso personaggio, e Mia
Farrow, interprete di Daisy, la donna di cui Gatsbay è innamorato da
anni e che, nonostante sia sposata con uno sportivo di fama nazionale, cerca di riconquistare in ogni modo, financo a proteggerla da una di lei condotta che
determina la morte della moglie di uno dei protagonisti del romanzo; poi per mezzo di “Leggere Lolita a Teheran”, splendido
lavoro della scrittrice iraniana Azar Nafidi,
che racconta di una docente universitaria che, a causa del regime khomeinista,
è costretta ad insegnare alle proprie allieve privatamente, impartendo loro lezioni sulla libertà utilizzando i romanzi della grande
storia letteraria occidentale, fra cui il libro in commento.
La narrazione
avviene per bocca di Nick Carraway che si mostrerà essere l’unico vero amico di
Gatsby, il quale vedrà dematerializzarsi
le centinaia di persone ospiti tutte le
sere estive nelle grandiose feste che si celebravano nella sua villa, indicando al lettore una verità a tutti
noi conosciuta a spesso dimenticata: l’amicizia vera è rara e maggiormente diffusa è quella effimera che si liquefa ai primi
scricchiolii nella vita del destinatario di essa.
Fabrizio Giulimondi
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