domenica 3 novembre 2013

ABSTRACT DELLA TESI DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA CONSEGUITA NEL LUGLIO 1989 DA FABRIZIO GIULIMONDI PRESSO L’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA” DI ROMA SULLA “INDISSOLUBILITÀ DEL VINCOLO MATRIMONIALE RELATIVAMENTE ALLA DISPENSA ‘SUPER RATO’”


 La Tesi in prima battuta si  sofferma sul significato e sul ruolo del matrimonio canonico. Dopo averne ricordato taluni fondamentali richiami codicistici e conciliari relativi alla sua fondamentale essenza, sottolinea come dagli stessi emerga il profondo rilievo sociale che il rapporto coniugale  è chiamato ineluttabilmente a svolgere nella società contemporanea, costituendone “essenziale e irrinunciabile elemento fondativo”.

In seconda battuta il lavoro studia la  disciplina concordataria del matrimonio intervenuta tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica con l’Accordo siglato a Villa Madama in Roma il 18 febbraio 1984, a modifica della precedente disciplina dettata dal  Concordato Lateranense del 1929.

Si valuta  la compatibilità della disciplina del matrimonio concordatario con il principio di laicità dello Stato e  come lo stesso non si rinvenga affatto compromesso dai vari accordi intervenuti tra lo Stato e le confessioni religiose in Italia, ivi compreso quello intervenuto con la Chiesa cattolica. Infatti, la laicità, pur elevandosi al rango di “principio supremo dell’ordine costituzionale”, di per sé “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (Corte Cost., sentenza n. 203/89). E ciò nel rispetto – come approfondisce in più recenti argomentazioni la stessa Corte – di quei fondamentali principi costituzionali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 Cost) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 Cost), secondo i quali “l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa …., imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza”. Ciò comunque non frappone alcun ostacolo – ritiene altresì la Corte – alla “possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8)”.

Poste tali preliminari precisazioni, è stato altresì osservato come neanche sia ravvisabile alcun contrasto con il principio di laicità il procedimento relativo alla (probabile, ma non sempre scontata) esecutività delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario nell’ordinamento giuridico statale (c.d. delibazione), poiché lo Stato conserva comunque la sua giurisdizione esercitando – ai sensi della nuova normativa pattizia del 1984 (art. 8, n. 2) – un concreto potere di controllo su quelle decisioni in ordine al rispetto o meno del diritto di difesa delle parti nel processo canonico: un potere che è sicuramente più incisivo e penetrante rispetto alla precedente normativa del 1929 (art. 34, c. 6), la quale – viceversa – consentiva un’esecutività ex officio totalmente sottratta al potere di disposizione delle parti stesse, anche in relazione ai provvedimenti amministrativi di dispensa dal matrimonio rato e non consumato emessi dal Romano Pontefice, i quali non sono più attualmente suscettibili di ricevere tale esecutività in quanto esclusi dalla nuova normativa concordataria, attesa la loro natura graziosa e non giudiziaria.

Del resto, anche dal confronto europeo si rinviene parimenti disciplinata in svariati Concordati con la Chiesa cattolica la concessione degli effetti civili sia al matrimonio canonico che alla sua eventuale declaratoria giudiziale di nullità, purché non in violazione del divieto di trattamento differenziato senza giusto motivo delle confessioni religiose, nonché  del diritto di ogni cittadino a riconoscersi in un ordinamento informato al principio di laicità.

Ne consegue che solo in presenza di una grave e radicale violazione del diritto di difesa o di altri diritti fondamentali delle parti nel processo canonico potrebbe configurarsi una lesione del richiamato principio di laicità; ipotesi che, allo stato, rimane in ogni caso scongiurata, in quanto unanime e consolidato orientamento giurisprudenziale già ravvisa in quella lesione una contrarietà all’ordine pubblico, impedendo – proprio in virtù di quel preventivo controllo testé richiamato – l’ingresso nell’ordinamento dello Stato a decisioni che siano in aperto contrasto con proprie norme fondative ed inderogabili.

A questo punto viene compiuta una approfondita disamina degli istituti della nullità e del matrimonio rato e non consumato.

La nullità del matrimonio canonico si verifica quando il vincolo, contratto davanti al ministro della Chiesa Cattolica, è nullo per la presenza di un impedimento, in ragione di  un vizio del consenso o di un difetto (grave) di forma.
Se il matrimonio è dichiarato nullo dal Tribunale ecclesiastico competente, per la Chiesa il matrimonio non è mai esistito e quindi le parti possono contrarre nuovo matrimonio dinanzi alla Chiesa.
A differenza dell’annullamento che interviene su un contratto che è venuto giuridicamente ad esistenza, sebbene  viziato, la nullità non fa sorgere il legame negoziale, che risulta, pertanto, essere un simulacro di contratto.

Il matrimonio canonico è un Sacramento che ha - per semplificare - la forma di un contratto, in cui è essenziale il consenso delle parti, libero, consapevole, posto nella debita forma e in assenza di impedimenti.

La procedura comporta l’audizione di  coloro che hanno contratto matrimonio, unitamente ai testimoni, che possano avvalorare la deposizione delle parti sulla loro vicenda matrimoniale e, soprattutto, che possano riportare fatti significativi su ciò che attiene più strettamente il motivo di nullità addotto.
Nel caso in cui il motivo di nullità attenga a problemi psicologici,  psichici o fisiologici, il Tribunale si avvale dell’opera di un perito.
Al termine dell’istruttoria, si ha una prima decisione, che può essere o affermativa  o negativa.
Nel caso di sentenza affermativa, la causa passa automaticamente al Tribunale ecclesiastico di appello, che potrà con decreto confermare, senza svolgere  ulteriore istruttoria,  la pronunzia di prime cure , che a questo punto  diviene definitivamente esecutiva, sancendo la nullità del matrimonio:  le parti possono passare a nuove nozze davanti alla Chiesa.
Il Tribunale d’Appello può, in alternativa,  ritenere che la causa meriti approfondimento, e quindi riaprire l’istruttoria, riascoltando le parti ed i testimoni o nominando un nuovo perito. Al termine di questa seconda fase istruttoria, se il Tribunale d’Appello conferma la sentenza resa in primo grado, il matrimonio è nullo. Se invece riforma la sentenza in primo grado, ritenendo che non consta della nullità, la parte interessata dovrà ricorrere in terzo grado di giudizio presso la Sacra Rota.

Nel caso in cui, invece, la sentenza in primo grado sia negativa, la parte interessata alla dichiarazione della nullità deve appellare o davanti al Tribunale ecclesiastico d’Appello normalmente competente, oppure dinanzi la Sacra Rota.

La procedura, sia che la sentenza di primo grado sia affermativa, sia che sia negativa, prosegue fino a che non si ottengano, in ogni caso, due decisioni conformi: due sentenze favorevoli alla nullità, emesse da due tribunali di grado diverso, nel qual caso il matrimonio è nullo;  due sentenze negative sfavorevoli alla nullità, emesse da due tribunali ecclesiastici di grado diverso, nel qual caso il matrimonio viene confermato valido sin dalle sue origini.

Il matrimonio si dice rato quando le parti si sono sposate con la debita forma ed in assenza di impedimenti del matrimonio canonico o di vizi del consenso del matrimonio canonico. E’ consumato quando i coniugi hanno posto in essere la copula coniugale. Se il matrimonio è rato e consumato non può essere sciolto da nessuno, nemmeno dal Romano Pontefice. Se invece il matrimonio non viene consumato, ciascun coniuge può chiedere al Papa la grazia di essere sciolti dal matrimonio, per una giusta causa. Il procedimento è di tipo amministrativo e non giudiziale, e si conclude con la dispensa del Pontefice, dopo l’accertamento (per dichiarazione delle Parti, di testimoni e – se necessario – per perizia) della mancanza di consumazione. Gli argomenti che possono essere portati sono il c.d. “argumentum phisicum”, ovvero la verginità della donna, il c.d. “argumentum morale”, o ancora la prova può essere fornita  con altri mezzi, oppure si dimostra che i due coniugi sono vissuti sempre separati. Per sé il matrimonio rato e non consumato è un matrimonio valido, da cui si è dispensati per assenza  di consumazione, a beneficio dell’anima dei contraenti.

Ciascun coniuge può passare a nuove nozze davanti alla Chiesa. Tuttavia, essendo una grazia papale, non può avere alcuna efficacia per lo Stato:  il provvedimento di dispensa non può essere delibato, id est non è prevista la delibazione, diversamente dai provvedimenti tribunalizi ecclesiastici di nullità del vincolo nuziale.

La sentenza di nullità resa dai Tribunali ecclesiastici vale per lo Stato italiano solo se è affermativa e se è divenuta esecutiva in virtù del  controllo realizzato dalla Corte d’Appello statale competente, che deve valutare, oltre a quanto appena detto, che siano stati rispettati i principi di difesa delle parti in giudizio e che la pronunzia non sia contraria ai principi statuali; tutto ciò non è automatico, ma avviene attraverso una procedura detta di delibazione, che deve essere portata avanti da uno o da entrambi i coniugi.

In conclusione,  non tutte le sentenze sono delibabili.

Fabrizio Giulimondi

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