Ken Loach, uno
dei più grandi registi al Mondo del cinema impegnato, sociale e di denuncia, giganteggia
in un film la cui tensione emotiva tiene in apnea lo spettatore per tutta la durata della
proiezione. “Io, Daniel Blake” è bellissimo,
perché è denso, perché è implacabile, perché è pura spremuta di autentica umanità.
“Io, Daniel Blake” è la storia di donne e uomini vandalizzati nella propria
dignità da un sistema sociale feroce, fatto di implacabili regole tutte tese ad
umiliare chi è caduto nella ragnatela della difficoltà economica, finché non ci
si arrende, finché non si muore, finché non ci si prostituisce. La
prostituzione non è solo un comportamento corporale ma è soprattutto
asservimento ad un meccanismo, ad un ingranaggio infernale costituito da moduli
da compilare, ricorsi da presentare, call
center con cui interloquire, strumenti telematici che non si sanno adoperare, assistenti sociali che si crogiolano nella
carognaggine, interminabili tempi di attesa telefonici cadenzati da musichette ripetitive
che ossessionano persone disperate.
Daniel
Blake è un cittadino di Sua Maestà, né più né meno, e tale vuole rimanere, fino
in fondo, finché non ottiene i suoi diritti minimali oramai calpestati,
ridimensionati, eliminati.
Daniel
Blake non si arrende, perché il suo mondo è fatto di umanità, di aiuto, di
gentilezza, e anche se lui si trova nelle peste continua a dare una mano ad una
ragazza con i suoi due figli, come farebbe un padre, come farebbe un nonno. Daniel
Blake non si arrende perché lui non è un numero di previdenza, lui è una
persona.
Quello
di Loach è un mondo impietoso, senza
riguardi per i grandi problemi degli esseri umani. In questo mondo spietato ogni
tanto Loach consente ad alcune
figure di baluginare nel crepuscolo della coscienza con uno scintillio di comprensione
negli occhi: una operatrice del welfare,
una sola fra le tante pulviscolari addette al settore, perla rara dotata di
nobiltà d’animo nella frastagliata fanghiglia inumana dedita alla quotidiana
assenza di ascolto dell’altro; oppure il direttore di un supermercato che
lumeggia con uno scatto di bontà dinanzi ad un furto per fame, bontà sfortunatamente
oscurata dalla malvagità della guardia giurata che ammanta di attenzione umana
ciò che è solo feroce cupidigia immorale.
Ma
nonostante l’incessante, martellante, insistente, sistematico accanimento di un
sistema – che nell’opera è quello britannico ma, in realtà, appartiene oramai all’intero
mondo occidentale – avverso a chiunque abbia la sventura di cadere nell’ingranaggio
luciferino del bisogno e della disoccupazione, la schiena di Daniel Blake rimane
dritta, lo sguardo indomito, l’animo mai sconfitto, perché Daniel Blake è un
cittadino e chiede soltanto il rispetto dei propri diritti, né più né meno: “I, Daniel Blake”
Fabrizio Giulimondi
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