“La verità sta in cielo” del bravo
regista Roberto Faenza si fa vedere,
ben strutturato, dotato di una narrazione agile con taglio giornalistico, di un
ottimo cast di attori che vede Scamarcio come loro fulcro, oltre che di una tecnica del linguaggio
filmico impregnata su immagini di ampio respiro, mai troppo incentrate sui
volti dei personaggi o su particolari corporei, a parte una stravagante sequela
di passaggi scenici di richiamo feticistico tutti concentrati sui piedi in movimento della avvenente attrice
Greta Scarano, interprete della Minardi, “donna” di De Pedis.
Una ingenuità
ed una criticità ridimensionano sfortunatamente la qualità del lavoro
cinematografico.
Atteso
che la storia è prevalentemente ambientata nel 2005, vede come set le zone di Roma limitrofe a San
Pietro e cerca di dare una soluzione il più possibile convincente al mistero di
Emanuela Orlandi, la ragazzina quindicenne cittadina vaticana sparita nel nulla
il 22 giugno 1983, Faenza non indica
né all’inizio né al termine del film su quali elementi testimoniali o
documentali abbia poggiato la propria ricostruzione delle vicende raccontate. A
questo elemento critico si affianca la grave ingenuità evidenziata in alcune
scene che mostrano una delegazione di inquirenti statunitensi che si reca nella
Santa Sede per arrestare il cardinal Marcinkus, Presidente dello Ior: come
potevano pensare costoro di trarre in
vinculis un cardinale cittadino vaticano, dominus della
banca centrale vaticana, dentro le mura di
uno Stato sovrano privo di accordi e convenzioni internazionali di assistenza
giudiziaria o di estradizione?
Lo
sviluppo de “La verità sta in cielo”
si incastra in una costellazione di accadimenti
che vedono protagonisti ”Renatino” detto il
Dendi, uno dei capi della Banda della Magliana, lo Ior di Marcinkus, il
Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e il riciclaggio di massive somme di denaro
di origine mafiosa. La fictio artistica
della inchiesta portata avanti da una valente giornalista italiana di stanza a
Londra, inviata a Roma da una testata inglese per riaprire il “caso Orlandi”, che
riprende e si interseca con quella già iniziata da un’altra coraggiosa reporter RAI, è indubbiamente stimolante
e ben congeniata. Le conclusioni, purtroppo, risultano fumose, forse assenti, o
confuse, rimandando la palla Oltretevere, ad un (fantomatico?) dossier che tutto rivelerebbe sulla
povera Emanuela Orlandi. La comparsa sul finale di Pietro Orlandi, fratello
della ragazza, da un tocco di valore documentaristico all’opera.
Fabrizio Giulimondi
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