“Il nido” dello scrittore australiano Tim Winton (Fazi editore) è un romanzo dove la parola prevale sulla narrazione.
I
fatti sono secondari perché soverchiati da un tripudio di parole ed una cascata
di aggettivazioni che mulinano vorticosamente nella testa del lettore. Le
parole spadroneggiano divenendo trama stessa, costruita sul fascino di una composizione,
impudica, sfacciata, di vocaboli, termini, lemmi e fonemi. Le parole sono il
vero polo di attrazione del lettore che rimane disinteressato alla storia. Metonimie,
sinestesie e metafore avvolgono il racconto che rischia di esserne soffocato, accantonato
dalla verbosità, talora ampollosa, di Winton,
trapezista, acrobata e funambolo della lingua. Le frasi hanno un ritmo
sincopato grazie all’abile uso della punteggiatura, capace di creare cesure tra
una parte e l’altra della frase e di interrompere il periodo in contrasto sì con
le regole linguistiche, ma non certamente con l’estetica e la sonorità del
linguaggio.
Il
lettore galleggia nell’afa pungente che opprime i protagonisti, che danno
corporeità all’abbandono, alla tristezza, alla solitudine e al disincanto,
autentiche colonne sonore del romanzo. Le prime centinaia di pagine – come un
lungo prologo - si soffermano sulla
imponderabilità della natura umana, sulla incomunicabilità fra persone
apparentemente vicine: l’inaccessibilità del piccolo Kai, la sgradevole
volubilità di Gemma, l’apparente imperscrutabilità di Tom Keely, il cui cuore
nasconde come un nido di uccelli sentimenti silenziati, che si mostreranno
virulenti solo nelle ultime battute dell’opera.
Sono
parole intrappolate nel silenzio: “Il
ragazzino si ammutolì. E restò in silenzio. Keely cercò di trattenersi. Non
poteva farlo. Non era il caso. Ma il ragazzino insisteva. Il quel silenzio
dalla punta di diamante. Che continuava a penetrarlo”.
Fabrizio Giulimondi
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