martedì 21 febbraio 2017

"MANCHESTER BY THE SEA" DI KENNETH LORENGAN: PREMIO OSCAR 2017 COME "MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA" (CASEY AFFLECK)

Manchester by the sea” di Kenneth Lonergan, candidato a sei nomination agli Oscar 2017 e vincitore di due Bafta, è la traduzione in linguaggio cinematografico di molta letteratura psichiatrica sulla elaborazione della morte, a partire dal bel libro “Il lutto” di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa (Giovanni Fioriti editore).
Immersa in uno scenario marittimo bello e algido del New Hampshire, la storia si muove intorno alla figura inizialmente indecifrabile di Lee Chandler (interpretato da Casey Affleck, che ha superato se stesso) ed ai suoi nuovi lutti, che si vanno ad aggiungere e a stratificare ad ancora troppo vive e devastanti morti.
L’opera è un studio attento, pacato ed implacabile, sereno e duro, sui comportamenti degli esseri umani dinanzi a scomparse tragiche, troppo tragiche e fuori dall’ordine naturale degli eventi per poter essere accettate da mente umana, ma è anche uno studio sulle reazioni davanti ad una improvvisa e grave malattia: si affaccia alla coscienza dei familiari il possibile decesso, poi probabile, per divenire fatale, inevitabile. I protagonisti del film, ognuno con la propria differente umanità, sono costretti ad accettare la morte, elaborarla, digerirla come soda caustica. Ogni singolo personaggio incarna le diverse reattività umane difronte la malattia, la sofferenza ed il lutto. La moglie e madre che fugge come se fosse lei la vera vittima di quella patologia infausta. La moglie e madre devastata dal dolore che scarica tutta la propria lancinante angoscia sul marito, gravato da un interminabile senso di colpa. La moglie e madre che, nel ridare la vita, si riapproprierà della capacità di amare quel marito su cui ha scaricato ogni responsabilità, annientandolo. L’adolescente che nella confusione dei sentimenti e nel sesso consumato vuotamente, anche subito dopo la morte del padre, vuole forzare se stesso a riconoscersi ancora vivo, entità corporea che agisce e si muove, senza rendersi conto che sta fuggendo dal suo reale stato d’animo. Gli attacchi di panico sono la cartina di tornasole di ciò che egli realmente è, figlio e cugino del lutto e figlio di una madre, “buco nero” delle afflizioni altrui: il frigo è freddo come lo è la cella dove sta il corpo del suo genitore e non saranno i corpi delle sue “fidanzate” a riscaldarlo.
E’ un film denso e intenso, che non ti molla mai.  E’ un film fatto di sguardi, dialoghi e silenzi e silenzi che si fanno dialogo e dialoghi che si fanno silenzi. E’ un film di espressioni mimiche che trasudano dolore e senso di vuoto e disperazione, di drammi che assumono sembianze corporee ed emozioni che parlano un idioma fisico. Il respiro rimane sospeso nell’aria, galleggiando in un’altra dimensione, per tutta la durata dell’interrogatorio di Lee: gli uomini non vogliono concedergli la giusta condanna per quel suo imperdonabile atto, una condanna a cui lui anela.
Le stesse splendide immagini (Jody Lee Lipes), nel loro splendore gelido, bloccano quell’urlo che ogni personaggio vorrebbe lanciare ma che non riesce a far esplodere: il grido è silente ed è fuso nell’incanto pacato della scena finale.

Fabrizio Giulimondi


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