“Manchester by the sea” di Kenneth Lonergan, candidato a sei nomination agli Oscar 2017 e vincitore
di due Bafta, è la traduzione in linguaggio cinematografico di molta
letteratura psichiatrica sulla elaborazione della morte, a partire dal bel
libro “Il lutto” di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa (Giovanni Fioriti
editore).
Immersa
in uno scenario marittimo bello e algido del New Hampshire, la storia si muove
intorno alla figura inizialmente indecifrabile di Lee Chandler (interpretato da
Casey Affleck, che ha superato se
stesso) ed ai suoi nuovi lutti, che si vanno ad aggiungere e a stratificare ad
ancora troppo vive e devastanti morti.
L’opera
è un studio attento, pacato ed implacabile, sereno e duro, sui comportamenti
degli esseri umani dinanzi a scomparse tragiche, troppo tragiche e fuori dall’ordine
naturale degli eventi per poter essere accettate da mente umana, ma è anche uno
studio sulle reazioni davanti ad una improvvisa e grave malattia: si affaccia
alla coscienza dei familiari il possibile decesso, poi probabile, per divenire
fatale, inevitabile. I protagonisti del film, ognuno con la propria differente
umanità, sono costretti ad accettare la morte, elaborarla, digerirla come soda
caustica. Ogni singolo personaggio incarna le diverse reattività umane difronte
la malattia, la sofferenza ed il lutto. La moglie e madre che fugge come se
fosse lei la vera vittima di quella patologia infausta. La moglie e madre
devastata dal dolore che scarica tutta la propria lancinante angoscia sul marito,
gravato da un interminabile senso di colpa. La moglie e madre che, nel ridare la
vita, si riapproprierà della capacità di amare quel marito su cui ha scaricato
ogni responsabilità, annientandolo. L’adolescente che nella confusione dei
sentimenti e nel sesso consumato vuotamente, anche subito dopo la morte del
padre, vuole forzare se stesso a riconoscersi ancora vivo, entità corporea che
agisce e si muove, senza rendersi conto che sta fuggendo dal suo reale stato
d’animo. Gli attacchi di panico sono la cartina di tornasole di ciò che egli realmente
è, figlio e cugino del lutto e figlio di una madre, “buco nero” delle
afflizioni altrui: il frigo è freddo come lo è la cella dove sta il corpo del
suo genitore e non saranno i corpi delle sue “fidanzate” a riscaldarlo.
E’ un
film denso e intenso, che non ti molla mai. E’ un film fatto di sguardi, dialoghi e
silenzi e silenzi che si fanno dialogo e dialoghi che si fanno silenzi. E’ un
film di espressioni mimiche che trasudano dolore e senso di vuoto e
disperazione, di drammi che assumono sembianze corporee ed emozioni che parlano
un idioma fisico. Il respiro rimane sospeso nell’aria, galleggiando in un’altra
dimensione, per tutta la durata dell’interrogatorio di Lee: gli uomini non
vogliono concedergli la giusta condanna per quel suo imperdonabile atto, una
condanna a cui lui anela.
Le stesse
splendide immagini (Jody Lee Lipes),
nel loro splendore gelido, bloccano quell’urlo che ogni personaggio vorrebbe
lanciare ma che non riesce a far esplodere: il grido è silente ed è fuso nell’incanto
pacato della scena finale.
Fabrizio Giulimondi
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