I
libri di Daria Bignardi sono autobiografie
camuffate da romanzi- astuti e ammiccanti - con tratti immaginifici confusi,
non riuscendo a comprendere il lettore dove finisca la realtà e incominci il
prodotto della fantasia.
Non è
da meno la sua ultima fatica “Storia
della mia ansia” (Mondadori), che
parla del tempo che si consuma contro la nostra volontà, un tempo pigmentato
dall’ansia trasmessa dalla madre alla protagonista, proiettata a vivere nuovi
amori volendo, in realtà, vivificare quelli antichi ancora presenti, nella
consapevolezza che il domani potrebbe non arrivare mai. Un tumore cambia tutto:
prospettive, baricentri, punti di fuga, angoli visuali, tonalità ed intensità
dei colori.
“Storia della mia ansia” racconta di una
donna, madre di tre figli e sposata con un uomo - in fuga dalla realtà che ha
ormai assunto il gusto aspro della malattia -, i cui giorni sanno di chemio,
terapie ormonali, capelli che cadono e vene che si rifiutano di farsi bucare, e
di un corpo imprigionato nella paura e nella nausea. Ma forse la parte migliore
della vita si vive quando si pensa di dover morire.
La
protagonista non ha un nome perché è lei che assorbe la narrazione, è lei
stessa la narrazione, è il sole intorno al quale roteano il marito Shlomo, il potenziale
amante Luca e gli assenti e anonimi figli e amici che compongono il dietro le
quinte della storia.
È un
libro sul “se”, quei “se” che tormentano l’esistenza di noi tutti e che
rischiano di divenire la forza gravitazionale che fa precipitare il presente
nel fosso di un passato alternativo a
quello veramente vissuto: “Se non mi
fossi massacrata di lavoro, se mi fossi protetta di più, se avessi mangiato
poco di tutto, se fossi stata moderata, razionale, se non avessi piantato
grane, non mi fossi gettata in ogni fuoco e in ogni sfida, se non avessi
sposato un uomo che mi fa soffrire, se mi fossi accontentata di gioire del
vento tra i rami e non mi fossi spinta oltre i miei limiti forse il mio corpo
avrebbe saputo tenere a bada il male. Ma non l’ho fatto. I miei errori sono ciò
che più rimane. Gli entusiasmi, gli slanci, le emozioni e le passioni, i rischi
che ho preso sono la mia vita. Gli errori hanno fatto di me ciò che sono.”
Le
parole e i periodi sono un prolungato e allungato carpe diem senza confini, inni alla resistenza, cantici alla
persistenza e alla permanenza, uno sciogliersi in quell’ “altro Io” che non conoscevamo
e che il cancro ci costringe a conoscere.
La
conclusione è irradiata da una rara espressione letteraria di inchino alla
famiglia che, al termine di tutto, è il solo scrigno che protegge la persona
quando i tetri demoni della malattia sopraggiungono e si affacciano all’uscio
dell’essere umano: questo cammino costellato di dolore ed umiliazioni lo faremo
insieme.
“Allora il tempo si dilata e sento dentro
qualcosa che mi scalda, ma è un lume, non è più una fiamma. Fa una luce
bellissima.”
Fabrizio Giulimondi
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