Mentre
leggete “Pranzi di famiglia” di Romana Petri (Beat edizioni) dovete pensare alla tavolozza dove sono sparpagliate
le chiazze di colore, da cui il pittore attinge per dare forma al proprio dipinto.
Le macchie
colorate rimandano alle dimensioni interiori dei personaggi che abbisognano di
un corpo per potersi manifestare, come le tinte necessitano di figure per
primeggiare su di esse: la fisicità è il veicolo per esprimere le personalità dei
soggetti narrati, tutti coprotagonisti di intriganti vicende senza trama.
A
parte il finale deludente, il romanzo tiene incollato il lettore alle parole,
che non sono altro che pennellate di inchiostro impresse dalla Scrittrice sulla
carta.
Le
storie si puntellano non su fatti ma su sentimenti, sulle recriminazioni, sul
destino cinico e baro, su personaggi mai artefici del proprio presente e del
proprio futuro ma solo vittime, in un superbo gioco al massacro.
Il rancore
versato goccia a goccia sull’assenza di dialogo quotidiano è la vera veste con
cui si copre una comunicazione parentale devastata dalla morte di una madre di
tre figli, di cui due gemelli, una madre sposata e abbandonata da un pavone
pieno di boria e povero di contenuti, coniugato poi con una donnetta riempita
di lardo.
La
lontananza di corpi e cuori rende l’anaffettività un’arma di difesa per
allungare esistenze solo cariche di una rabbia che non si riesce a palesare, specie
in quei “pranzi di famiglia” durante i quali la verità non esiste e il non
detto è il filo con cui si ricamano gli stati d’animo.
La
mancanza di legittimazione della propria sofferenza è origine di un malessere che,
se disvelato, cancellerebbe anni di astio e frustrazioni mal celate.
Quello
della madre morta è un lutto non accettato, per nulla elaborato, che, simile ad
una densa coltre di nebbia maleodorante, ricopre ogni istante della vita di
attori posti dalla Autrice tutti sullo stesso piano, nel quale nessuno si erge
sull’altro, tutti vittime, tutti carnefici.
Il
silenzio è il vero frastuono che si ode fra le mura di incomunicabilità nei pranzi
domenicali, fatti del tintinnio delle posate e del vuoto tra i commensali, un
vuoto che diviene ogni settimana sempre più fisico, sempre più autentico,
sempre più reale.
In
questa opera le arti si fondono e la pittura diviene letteratura, i colpetti
del pennello mutano nel ticchettio della mano che verga le parole, le immagini tridimensionali
ritratte nel quadro fuoriescono per entrare, in consistenza bidimensionale,
nelle pagine del libro ed essere risputate dentro la tela del dipinto, che ne acquista
una inusitata vividezza.
Una
ossessione, una oppressione e depressione da cui Vasco e Rita, in realtà,
vogliono uscire e per cui combatteranno, tessendo una trama, ognuno per conto
proprio, ognuno nella propria solitudine, nella propria tragica voglia di
liberazione da un fardello di cui sono colpevoli innocenti.
“Una famiglia portoghese vista con gli occhi di
una straniera che viveva in Portogallo. Una visione grottesca della solitudine
e del silenzio, un’interpretazione comica della tragedia”.
Fabrizio Giulimondi
Nessun commento:
Posta un commento