domenica 2 gennaio 2022

"BILLY SUMMERS" di STEPHEN KING

 


Io ho due mostri sacri: Steven Spielberg, incarnazione del cinema, e Stephen King, inveramento della letteratura horror, thriller, poliziesca e psico-crime.

Il momento di stanca capita a tutti, anche ai giganti, specie dopo produzioni artistiche senza precedenti al mondo.

Billy Summers” (Sperling & Kupfer) è l’ultima fatica letteraria di Stephen King e credo che, purtroppo, risenta del clima di campagna elettorale delle presidenziali statunitensi del novembre 2020.

Io non ho mai letto un romanzo lontano dal genere politologico o fantapolitico che attaccasse in continuazione, in maniera posticcia, improvvida, petulante, anche sconclusionata, una personalità che si avversa. In questo libro Trump è pura espressione del male, i suoi elettori berciati, tutti i suoi fan trattati come criminali.

Il personaggio principale, il protagonista ed eroe indiscusso è un vero e proprio killer che uccide a pagamento, ma solo quelli che lui ritenga persone cattive, come se un assassino possa ergersi ad angelo vendicatore, a giustiziere, a latore del Bene previo cospicuo compenso.

L’Autore sta con lui, lo coccola e lo vezzeggia, ritenendo giusto usare ogni mezzo per ricevere la “giusta mercede” promessa ed “ingiustamente” negata.  La violenza adoperata da Billy in qualche modo è giustificata, vista quasi con simpatia: forse in via subliminale si vuole sussurrare che un pluriomicida è migliore di Trump?

I noti tratteggi dei caratteri e delle personalità di Stephen King qui scompaiono. Alice, diciannovenne vergine brutalmente violentata da tre uomini, ha solo qualche fugace crisi di panico e segue senza colpo ferire un assassino abbracciandone “usi e costumi”: si va ben oltre la Sindrome di Stoccolma, che qui appare subitanea.

Billy prima di dedicarsi ad ammazzare le persone per denaro era un marine a Falluja nella guerra irachena voluta da Bush (ovvio!), ed è lì che ha imparato a sparare, e ad uccidere. Forse Billy è diventato un eliminatore prezzolato di uomini per colpa di Bush?

Il Sommo Scrittore è sequestrato da un manicheismo parossistico in cui il Bene sta tutto da una parte e il Male da un’altra. Che fine hanno fatto le descrizioni della complessità dell’uomo, miscuglio di distoniche verità in un apparente unicum?

Il finale, invece, è bello e ben costruito, con una chiara filosofia che lo sottende: la scrittura mantiene in vita chi amiamo, crea nuovi spazi e libera le menti dalla schiavitù del presente e della realtà.

Alice Maxwell, studentessa di economia e reduce da uno stupro, è seduta su un vecchio furgone con un uomo che si è guadagnato da vivere uccidendo la gente”.

Non v’è né drammaticità, né suspense, né pathos, mentre Dickens ed Émile Zola, padri spirituali di King, questa volta restano stupiti da tanto livore ideologico in un “giallo”.

Fabrizio Giulimondi

 

 

 

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