martedì 10 dicembre 2024

“I RAGAZZI DELLA NICKEL” di COLSON WHITEHEAD (OSCAR MONDADORI, 2019): VINCITORE PREMIO PULITZER 2020



I ragazzi della Nickel” di Colson Whitehead (Oscar Mondadori, 2019), vincitore del Premio Pulitzer 2020, è una “lettura necessaria” per dirla con il Presidente Obama.

Crudo, impietoso, senzapelle, mostra l’abominio del razzismo dell’America del Sud degli anni ’60 tramite le vicende di Elwood e di altri ragazzi, poveri e neri, la cui unica colpa è proprio di essere poveri e, soprattutto, black.

Il libro si legge di volata ed è difficile non emozionarsi dinanzi a tanta brutalità, a tanta plateale ingiustizia e a tanta voglia di resistere, vivere e avere un futuro.

Il bieco razzismo è componente principale dell’atmosfera, anzi direi l’unico componente e l’ambientazione, il set, è reale, perché quella “scuola” dove venivano “rieducati” ragazzi minorenni è esistita veramente con tutto il suo carico di sofferenze e atrocità.

È un romanzo “cinematografico” perché nel leggerlo sembra di vedere scorrere le immagini di un film.

Questo romanzo “cinematografico” evoca potentemente alla mente due pellicole di grande pregio: “Sleepers” di Barry Levinson (1996) e “Le ali della libertà” di Frank Darabont (1994).

Jaimie, Turner, Desmond ed Elwood: dirty niggers per “educatori” spietati che godono nell’affliggere punizioni anche di malsana ferocia e crudeltà, non sono altro che bambini terrorizzati colpevoli solo del colore della propria pelle e di essere senza famiglia e senza soldi.

La colonna sonora della narrazione è costituita dalle parole pronunziate da Martin Luther King durante i suoi discorsi di rivolta e ribellione, parole di non-violenza e di accoglienza amorevole anche del nemico più spietato. Nel buio totale (“Il buio oltre la siepe”) di una microscopica cella dove Elwood è gettato per settimane, pestato e frustato, sorgono riflessioni che tolgono il fiato su come si possano realizzare simili parole e simili pensieri dinanzi a tanta cieca violenza e cattiveria; sembra di rivivere il “martirio d’amore” – come lo definì Papa Paolo VI - di san padre Massimiliano Kolbe ad Auschwitz.

Autentica e grande letteratura americana!

Fabrizio Giulimondi

venerdì 6 dicembre 2024

"NAPOLI - NEW YORK" di GABRIELE SALVATORES

 


Napoli – New York” di Gabriele Salvatores è uno “Sciuscià” rivisitato e visto con gli occhi di un regista degli anni 2000.

L’interpretazione è magistrale. Le espressioni mimiche dei giovanissimi protagonisti lasciano il segno e coinvolgono empaticamente ed emozionalmente il pubblico dalla prima all’ultima scena.

Dea Lanzaro nel ruolo di Celestina (dieci anni) e Antonio Guerra in quello di Carmine (quindici anni) sono due autentici prodigi, due veri portenti. Il viso di Celestina, da quando esce viva dalla esplosione della bomba della Seconda guerra mondiale (siamo nel 1949 a Napoli) sino all’ultima immagine che la ritrae a New York durante la “sfida esistenziale” giocata barando a carte, è pura narrazione corporea, fisica, mimica, vera, autentica e verace, di sguardi smorti e visi apatici, di volti rassegnati o pronti a tutto perché tutto hanno già conosciuto. Uno sguardo intenso e semplice, un viso come pochi, proteso verso il futuro, pronto a conoscere tragedie già vissute o magari un’altra vita, il cui solo pensiero dipinge un sorriso dolce e sognante.  

Pierfrancesco Favino oramai ci ha abituato a performance di alto livello. La sua statura di attore si conferma anche in questa prova.

Dagli Appennini alle Ande, da Napoli a New York, insieme alle storie, drammatiche o gioiose, di centinaia di migliaia di italiani che hanno lasciato tutto - o niente – per andare verso un nuovo orizzonte con lo  skyline della Grande Mela.

Credo che alcuni David di Donatello saranno assegnati a questa pellicola e, presumibilmente, ai due suoi incredibili, straordinari, unici  attori-ragazzini.

Fabrizio Giulimondi


                    


venerdì 22 novembre 2024

"SENZA EREDI. RITRATTI DI MAESTRI VERI, PRESUNTI E CONTROVERSI IN UN’EPOCA CHE LI CANCELLA" di MARCELLO VENEZIANI (MARSILIO NODI)



Non siamo eredi, non lasciamo eredi. Non ereditiamo niente, non lasceremo alcuna eredità. È questa, per dirla in breve e in modo diretto e brutale, la condizione odierna … Viviamo in un’epoca di contemporanei, senza antenati né posteri, uniti solo nel vago domicilio nello stesso tempo; non consorti, al più coinquilini … Nessuno continuerà la nostra opera, nessuno salverà quel che poteva, doveva essere salvato di ogni eredità … E i posteri, di questo passo, saranno privi di memoria storica e letteraria, e di coscienza critica. È l’epilogo coerente di una società senza padre, poi diventata società senza figli, società parricida e infanticida, all’insegna delle orfanità elettive. La società dei mutanti e dei no-nati, nel senso della denatalità e dell’aborto. Il nichilismo alla fine mantiene la promessa: di tutto resterà niente, dopo di noi il nulla”.

Viviamo tempi in cui il vuoto e la sua ricerca sono valori agognati ed esaltati ed il relativismo decostruisce persino ciò che cade sotto i nostri cinque sensi: un tavolo può divenire una sedia se così è stabilito da chi decide orwellianamente ciò che è vero e ciò che è falso; quello che bisogna dire e quello che non bisogna dire; ciò che è giusto pensare e ciò che è obbrobrioso pensare.

La necessità di un pensiero denso che punta all’essenza, a ciò che non muta, all’invalicabile, al senso del limite, è avvertita da chi mantiene una propria razionalità a-materialista.

Marcello Veneziani continua a tentare di fornire risposte e porre domande dentro un percorso che non privi l’uomo della Natura, una Natura vera, non ecologista o ambientalista; un percorso che non privi l’uomo della sua verità che in quanto tale spasima verso l’Assoluto.

L’autodeterminazione umana in ogni campo sta destrutturando l’essere umano come il cubismo confuse e spostò le parti del corpo umano. L’arte nel suo genio creativo può farlo ma se lo fa l’essere umano è lo stesso essere umano a rimanerne annientato: la libertà cancella se stessa.

Senza eredi. Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella” (Marsilio Nodi) tratteggia - similmente a "Imperdonabili" - in modo non didattico, accademico o didascalico sessantasei pensatori antichi, moderni e contemporanei, di ogni genere e tipologia e, attraverso questo tratteggio, maieuticamente e socraticamente fa fuoriuscire altri mondi, altre prospettive, altri orizzonti, altre visioni.

Come tutte le opere di Veneziani, il linguaggio è potente, le concezioni della vita e del mondo del tutto extra ordinem.

Nel mondo della pochezza globale, questo saggio, lo dico senza infingimenti, è per chi è in grado ancora di pensare, di analizzare, di voler capire e apprendere.

Per capire la vita, il mondo e la condizione umana il pensatore intreccia saperi ed esperienze, non è irretito da un sistema e da un lessico, o ingessato in un corso d’insegnamento. Il rapporto tra la realtà e la verità, tra la parola e il silenzio, si fa in lui intenso, diretto, assoluto, senza interferenze, senza linguaggi astrusi, puro  nell’impurità di un pensiero vivente che si dispone a trascendere la morte e a non finire con l’opera”.

Fabrizio Giulimondi  

sabato 2 novembre 2024

"LA CASA DEI SILENZI" di DONATO CARRISI (LONGANESI)

 


Donato Carrisi è tornato con un romanzo che supera i precedenti per linearità della trama ed incisività narrativa, con un crescendo wagneriano emozionale che gli ultimi lavori avevano talora dimenticato.

La casa dei silenzi” (Longanesi) è frutto di un reticolato di silenzi e inquietudini, memorie cancellate e messaggi che vengono dal futuro.

I sogni sono al centro del racconto. I sogni sono il tessuto connettivo dell’opera. I sogni legano personaggi e ambienti, presente, passato e futuro. Sono i sogni ha creare l’atmosfera, anzi sono l’atmosfera stessa. I sogni sono un mistero e il mistero della psiche è immerso nei sogni.

L’ “addormentatore di bambini” è tornato insieme a vicende che gettano il lettore in uno stato dopaminico.

La pareidolia.

Il signor B. Il signor Z.

La realtà è un simbolo e il simbolo la realtà.

Non riuscirete a smettere di leggere: leggere tutto e subito sarà una necessità compulsiva.

Tutto è reale. Nulla è reale.

La rosa è il nome di un fiore o di una bambina? Sartre e thriller.

Passato, presente e futuro non si distinguono, fusi in un unico magma spazio-temporale.

Magnolia.

Una donna dai capelli neri indossa un abito scuro. Lei vive nei sogni di Matias. Lei lo guarda. Lei esiste o è una proiezione onirica del ragazzino?

Una minuziosa ricostruzione di fatti immaginifici e reali che non fa staccare il lettore dal libro.

Limonata scarpa morte.

Non c’è più tempo.

La vera realtà dimora in ciò che non vediamo perché è ciò che non è visibile ad essere la vera realtà.

Il kafkiano grande scarafaggio.

L’evocazione esorcistica dell’incontro al secondo piano della casa dell’ipnotista con il perseguitato dallo stesso sogno che si è trasformato in un incubo terrifico nonostante la sua placidità.

Un sogno che si ripete per un anno. Un incubo. Nightmare.

Letteratura e cinema. Psicoanalisi, psichiatria e analisi dei sogni. Coscienza, inconscio e subconscio.

Spesso in quelle famiglie trova ad aspettarla lo scarafaggio. Cambia aspetto ma è sempre lui. Ormai a imparato a riconoscerlo”.

Fabrizio Giulimondi

giovedì 24 ottobre 2024

"DIMMI DI TE" di CHIARA GAMBERALE (EINAUDI)



 È arrivato il momento di rinunciare al controllo quando non mi serve a niente. Devo essere felice”.

Il nuovo lavoro di Chiara GamberaleDimmi di te” (Einaudi) è letteratura psicoanalitica allo stato puro.

L’Autrice di “Le luci nelle case degli altri” e di “Per dieci minuti” si racconta in un libro autobiografico forte, intimistico e intensamente introspettivo. La Gamberale mette a nudo senza riserve la propria vita dal periodo pandemico ad oggi, disvelando al pubblico il “blocco dello scrittore” in cui si è imbattuta, il rapporto totalizzante con la figlia, “Bambina”, di cinque anni e il non-rapporto con il suo “non-fidanzato”, il cui nome rivela solo alla fine. I nomi sono importanti perché il loro uso esprime un sentimento, legittima la persona, la rende reale.

Libro vero, sincero, coinvolgente perché autentico, “Dimmi di te” affronta tematiche scottanti seguendo – incredibile dictu!  un canone inverso: nonostante il bambino di una coppia sia gravemente disabile la madre esclude da subito di ricorrere all’aborto; viene descritto il cammino al contrario di un omosessuale, che si sposa con una donna dalla quale avrà due figli e con la quale ne adotterà altri due; v’è una grande attenzione per la maternità, per il rapporto fra madre e figlio e per la bellezza dell’allattamento al seno.

Credimi, fin da quando era piccolissimo, incrociavo il suo sguardo e capivo che le cose si sarebbero sistemate, che Angelo e io avremmo solo dovuto avere un po’ di pazienza….”

Dimmi di te” è intriso di una profonda spiritualità e narra il cammino di ricerca interiore percorso dalla Scrittrice.

L’Umanità nelle sue molteplici forme è rappresentata da Raffaello, Ivan, Riccarda, Grazia, Paloma, Stefano e Cate, che vengono tutti “intervistati” da Chara Gamberale. La Gamberale, per comprendere se stessa, scruta le esistenze degli altri: tirarsi fuori dalla palude in cui è immersa, uscire dal buco nero dove è stata risucchiata attraverso le parole e le esperienze degli amici di un tempo e di nuova acquisizione. Non solo. Molto possono insegnare le dinamiche relazionali fra l’adulto e il bambino e l’osmosi fra il singolo e la coppia. Molto può insegnare l’elaborazione del lutto, che sia da malattia o da suicidio. Sul confine gelatinoso fra la vita e la morte l’Autrice spende parole meravigliose nell’imbattersi in Nick nel cimitero di Ventotene: “…Questa vicinanza fra chi è nel mondo fisico, chi non c’è, chi ci sarà quando noi non ci saremo più…Non si muore. E’ l’unica risposta….Chi più di me potrebbe constatare che non siamo niente: siamo ossa. Ma io so che non moriamo, perché il respiro, qui al camposanto, è incessante….”

Fabrizio Giulimondi

sabato 19 ottobre 2024

"BAMBINO" di MARCO BALZANO (EINAUDI)

 


Ero stato un fascista, un soldato e in delatore. Non sapevo cosa fosse lavorare”.

Bambino” di Marco Balzano (Einaudi) è un romanzo duro, roccioso, impressionante, sull’orrore che l’uomo può realizzare in Terra nel voler sostituire l’ideologia alla realtà.

La città di Trieste nazi-fascista e poi comunista titina più che l’ambientazione della storia ne costituisce la trama. Trieste, con la sua bora ed i suoi segreti sanguinari, è la colonna vertebrale di una narrazione calda e tragica.

Mattia, un fascista portato alla violenza, alla angheria e al sopruso, scopre che la sua vera madre è un’altra e comincia a cercarla nei volti delle slovene del Friuli e dell’Istria, dove etnie e religioni sono affasciate fra loro da un antico sentimento di odio e cieca violenza.

L’avvento del fascismo, la Campagna di Grecia, l’8 settembre, l’arrivo della Stella Rossa nelle terre giuliano-dalmate, l’abisso delle foibe.

L’incubo nazista e poi quello comunista.

Le pagine del libro sono intinte di sangue, polvere e morte, stupri e torture: il lettore se ne avvede senza vederli come nelle tragedie elleniche.

Uno stomaco chiuso e un senso di angoscia e impotenza accompagnano questa ricerca di radici materne, di Cecilija, di Adriano, di Ernesto, del padre stesso di Mattia, Mattia che dovrà dismettere anche il proprio nome.

Bambino” diviene sempre più implacabile con lo sfogliare delle pagine.

Ogni volta che l’uomo ha voluto forgiare l’”uomo nuovo” ha forgiato solo l’incubo in Terra, uno “sprofondo che esala odore di carogne e di maledizione”.

Si legge in poche ore ma ciò che provoca la lettura del lavoro di Marco Balzano dura giorni.

Fabrizio Giulimondi

martedì 15 ottobre 2024

"L'OLIVO BIANCO" di CARMINE ABATE (ABOCA)

 


L’olivo bianco” (Aboca) di Carmine Abate - prolifero scrittore arbëreshë vincitore del Premio Campiello (2012) e di numerosi altri prestigiosi premi letterari -  fornisce al pubblico un’altra prova della sua poetica bucolica e della sua lirica della terra, degli alberi come entità spirituali, del dialogo silenzioso e affascinante della natura con l’uomo, delle famiglie che tramandano storie perché il futuro non le dissipi. Al pari delle piante che resistono alla furia delle acque grazie alle proprie radici, la letteratura di Carmine Abate si oppone ad un modernismo cieco, algido e anonimo.

Le pagine di Abate profumano dei fiori calabresi e sono saporitosi come le pietanze preparate dalla madre.

Spillace e Hora sono i due volti sognanti di Carfizzi, paese natale di Abate, luogo dell’anima, spazio metafisico delle memorie e degli affetti. Ogni storia, in fin dei conti, è una storia d’amore: Luca per la sua rarità botanica, l’olivo bianco; Carmine per la sua Elena; il padre di Carmine per quel mondo trasudante fatica, odori, sudore e bellezza; la madre per la sua famiglia e il suo cibo.

L’interpolazione di idiomi calabresi rende melodioso l’incedere del lettore, che avverte la sensazione di mettere le proprie mani sotto la colata soffice e calda della pasta mentre esce dal macchinario; percepisce le proprie mani scavare una terra pastosa e carica di umori e profumi, presagio della pianta che verrà.

Sembra di vederli quei boschi così gagliardi, lussureggianti, selvaggi e rigogliosi.

Sembra di respirare quell’aria così fina, tersa e pregna di fragranze pungenti e inebrianti.

I grafemi sprigionati dalla penna dell’Autore espandono i polmoni facendoli respirare un venticello primaverile e genuino, che “sa di erbe aromatiche, di mare, di pomodoro e mandorla fresca”.

   

Fabrizio Giulimondi

 

 

domenica 13 ottobre 2024

"ALMA" di FEDERICA MANZON (FELTRINELLI): VINCITORE DEL PREMIO CAMPIELLO 2024

 


“…zeppo di bauli, valige, macchine da cucire, ma soprattutto scatole di vestiti, libri e giocattoli, di fotografie. I tesori degli esuli scappati dalle truppe titine. Un deposito di mondi abbandonati in tutta fretta e mai ricostruiti altrove”.

Il romanzo vincitore della edizione 2024 del Premio Campiello, “Alma” di Federica Manzon (Feltrinelli), è un lavoro complesso che parte come un diesel di prima generazione per acquistare velocità solo dopo aver superato la prima metà.

I personaggi assumono nitore nel calar del sipario ma è proprio sul calar del sipario che l’opera scatena la sua potenza e merita il secondo premio letterario italiano.

Il Maresciallo Tito e il suo comunismo differente da quello sovietico naufragano nell’Isola Calva. La menzogna, la difesa dalla memoria e la decomposizione della lingua serbo-croata “iugoslava” sono i collanti delle storie che passano dinanzi agli occhi del lettore.

Comunismo, nazionalismo estremo e ferocia belluina slava fanno da detonatore alla guerra balcanica che fra il 1991 e il 2001 riempie di luciferino orrore i territori delle Repubbliche che via via si rendono indipendenti dopo la morte di Josip Broz nel 1980.

Esiste un “di qui” e un “di là”: da una parte Trieste, Gorizia, il Friuli, Roma, mentre dall’altra ci sono il Carso, la Dalmazia, l’Istria, la Slovenia, la Croazia, la Bosnia, la Serbia. I protagonisti si spostano convulsamente fra l’uno e l’altro luogo -  non solo spazi geografici ma anche antropologici e metafisici - e lo spostamento determina confusione in chi legge: è come se le persone fossero sradicate dalle aree dove regna la propria azione, è come se queste persone non appartenessero più ad una dimensione spaziale determinata. È difficile dare un nome alle città che fungono da set, perché non sono indicate direttamente ma tramite i toponimi delle strade, delle piazze e dei parchi.

L’orrore è dietro e a fianco degli attori del racconto ma non dentro di loro come se ne fossero solo sfiorati: “Ad Alma viene da vomitare, deve essere faticoso vivere dovendo essere figli della nazione, guerrieri, sanguinari, instancabili stupratori e sprezzatori delle donne”.

Vukovar, Sarajevo, Srebrenica, Belgrado, ustascia e cetnici, croati, serbi, bosniaci, sloveni: un miscuglio intricato di etnie, sangue e religioni che si odiano di un odio ancestrale che dà vita ad una violenza oltre l’immaginazione umana; i croati si divertono a giocare a calcio con le teste dei serbi e i serbi si divertono ad ammazzare i bambini dinanzi alle madri per vederne la reazione e, in mezzo, vi sono miriadi di donne terribilmente stuprate.

La Manzon del suo “Alma” ne ha fatto un diorama di ciò che è stato e le pause, i silenzi e i non-detto riempiono di particolare significato questo diorama.

Fabrizio Giulimondi

sabato 12 ottobre 2024

"NON DIFENDERTI, ATTACCA. 50 REGOLE DI COMUNICAZIONE POLITICA PER SPIN DOCTOR E ADDETTI STAMPA” di CARLO MELINA (HISTORICA GIUBILEI REGNANI)

 


Non ascoltarli, gli ignoranti sono loro. Inseguono un elettore razionale e disponibile al confronto, che nella realtà non esiste. Danno fiato alla bocca, mentre tu fai vibrare l’anima”.

Carlo Melina, giornalista a tutto tondo e esperto professionista della comunicazione, ha scritto questa breve antologia di esperienze vissute sul campo della Politica “sangue e merda”: “Non difenderti, attacca. 50 regole di comunicazione politica per spin doctor e addetti stampa” (Historica Giubilei Regnani).

Si fa un gran parlare di comunicazione ma le regole che la governano sono in pochi a conoscerle veramente e questo volumetto ce le spiega con grande intelligenza e in modo sornione e anche divertente.

In “Non difenderti, attacca” non ci sono discorsi professorali e barocchi, noiosi e grigi ma consigli, “furbate”, dritte, trucchetti, segreti del mestiere. I suggerimenti posti in corsivo alla fine di ogni capitolo e i brevi pensieri dei grandi giornalisti della nostra epoca rendono didattica e didascalica la struttura del lavoro, facilmente fruibile a chiunque ed estremamente efficace per capire le tante “chicche” del mestiere di comunicatore politico.

La comunicazione è empatia, emozione, seduzione. La comunicazione è fatta di colori a tinte accese, non fosche e plumbee. La comunicazione è fatta di storie, e le storie si compongono di parole e immagini, e le immagini si catturano con la fotografia.

L’Universo è fatto di storie, non di atomi” (Muriel Rukeyser).

La teoria si evince dalla moltitudine di esempi di vita professionale vissuti da Melina, che analizza ed esamina aneddoti di campagne elettorali locali e nazionali e tranci di vicende istituzionali con l’aiuto di Rudi (l’elettore medio) e Pepito Sbazzeguti (un politico qualunque). L’Autore dalla propria esperienza dipana i risvolti concreti, gli sviluppi favorevoli e quelli negativi, illustrando come un concetto possa essere espresso in modo pregiudizievole o a vantaggio della personalità politica a seconda dell’uso che si fa delle parole, della quantità adoperata e della loro collocazione nel testo.

Il lessico scelto per descrivere un evento, come l’inquadratura di una fotografia, impone un punto di vista sulla realtà a cui si riferisce. Un framing, dicono gli psicologi della comunicazione, che determinerà l’interpretazione del messaggio da parte del pubblico. “Marocchino sgozza la moglie” è molto diverso da “Femminicidio fra le mura domestiche”.

Imparare dagli errori per farne altri e apprendere anche da questi ultimi.

Passione, rigore, lealtà e astuzia.

I vostri nemici hanno un bisogno disperato che voi reagiate. La ritirata li fa infuriare…”(Robert Greene)

Carlo Melina indica in modo simpatico e pragmatico il percorso stilistico da seguire nel redigere un comunicato stampa o qualsiasi altro “pezzo” interessi l’Autorità per cui si lavora.

Scienza, tecnica e burocrazia utilizzano un linguaggio ostile, esclusivo. Il tuo politico deve usare quello dei cittadini. Non vive in un regime, il suo destino dipende dagli elettori. Se Rudi non lo capisce, non lo voterà”.

Consiglio convintamente di leggere questo libello non solo agli addetti ai lavori (comunicatori, giornalisti, uffici stampa, portavoce, spin doctor), ma anche ai tanti curiosi che vogliono conoscere altri mondi, mondi che, in qualche modo, li toccano in realtà da vicino.

Fabrizio Giulimondi

sabato 5 ottobre 2024

"IL TEMPO CHE CI VUOLE" di FRANCESCA COMENCINI

 


Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini è un’opera di non comune intensità sul rapporto speciale che legava Francesca con il padre, l’intramontabile regista Luigi Comencini.

È un racconto fiabesco, onirico, emozionante, tenero, dove la magistrale interpretazione di Fabrizio Gifuni (Luigi Comencini) e Romana Maggiora Vergano (Francesca Comencini) sottrae lo spettatore alla realtà per introitarlo nel mondo immaginifico del cinema, facendolo allo stesso tempo rimane con i piedi ben piantati a terra.

La macchina da presa entra nella intimità della dinamica relazionale di un padre con la figlia, fissando sullo sfondo la tragedia del terrorismo e ponendo in primo piano lo stato di tossicodipendenza di Francesca. Dramma e tenerezza si potenziano reciprocamente, si abbracciano e si intrecciano. Le immagini sognanti del grandioso Pinocchio -  trasmesso dalla Rai nel 1972 - si decompongono per fare spazio ai crimini stragisti di Piazza Fontana e al rapimento e uccisione di Aldo Moro.

Non c’è moglie né madre, non vi sono figlie né fratelli, ma solo un lungo fermo-immagine sul padre insieme alla figlia, la figlia insieme al padre, entrambi avviluppati nella fantasiosa creazione prodotta dalla cinepresa.

Il rapporto fra padre e figlia è simbiotico e salvifico e gli sguardi, le espressioni mimiche e l’atteggiamento corporeo parlano un linguaggio metafisico fatto di parole espresse e non espresse, ma sempre morbide, delicate e carezzevoli anche quando sono dettate dalla disperazione.

Le inquadrature - che si realizzino in campi lunghissimi, dall’alto verso il basso o sfumando i contorni similmente ad immagini ipnagogiche nel cedere al sonno -  danno sempre forma ad un’arte incontrovertibile.

La recitazione ossiede la capacità di rapire chiunque, una recitazione corporea e incorporea, visibile e invisibile, tangibile e intangibile, composta da dialoghi, soliloqui interiori, sguardi amorevoli e tragici, lacrime e sorrisi.

Le ultime sequenze sono tranci di poesia che mutano in figure nuotanti in mezzo all’aria per congedarsi nella somma emozione: la morte del padre accompagnata dalla musica indimenticabile del Pinocchio di Fiorenzo Carpi.

Fabrizio Giulimondi






venerdì 20 settembre 2024

"LA CASA DEL MAGO" di EMANUELE TREVI (PONTE ALLE GRAZIE): CINQUINA PREMIO CAMPIELLO 2024

 


Questa è la caratteristica fondamentale che ci distingue dagli altri animali, più ancora del riso o del linguaggio. E il non sapere esattamente ciò che si vuole deve essere per forza la conseguenza di un potente istinto di conservazione. Tanto è vero che nemmeno mio padre, nemmeno i più illustri guaritori della storia, avevano mai potuto mettere impunemente le mani sul meccanismo umano dell’inconsapevolezza: modifica disabilitata.”.

(Ponte alle Grazie) – “cinquina” del Premio Campiello 2024 - è un romanzo bellissimo e oracolare, semanticamente alchemico e narrativamente amletico, con al centro della scena la solitudine come chiave di lettura della esistenza umana, interpretata dal padre del protagonista, dal protagonista e da Raoul, personaggio creato dalla immaginifica capacità creatrice di Beppe Fenoglio. La solitudine è salvifica ed è il retrobottega presente in ognuno di noi. La Degenerata, la Vistatrice, Paradisa-Gatta Morta e Miss Miller sono solo meteore che accompagnano la solitudine senza mai però intaccarla. La Visitatrice è una metafora, un simbolo, una allegoria, una chiazza di luce misterica che incuriosisce il lettore, che continuerà ad interrogarsi su chi lei sia veramente ben oltre la fine del romanzo: la coscienza? Il subconscio? L’inconscio?

La casa del mago” narra di un padre meraviglioso e misterioso; di un padre che occupa lo spazio dentro le linee di un esagramma e rappresenta lo zero al termine della cifra; di un uomo avvolgente tutta la storia, figura centrale fra figure centrali. “La casa del mago” ripercorre rimembranze familiari ancestrali che divengono familiari anche al lettore tanto sono vicine, vivide e reali.

Il “figlio del mago” percorre un dedalo ipnagogico di pensieri, fra Freud e Jung, simile al labirinto di dislivelli, vicoli, passerelle, stradine e ponticelli che disegnano Venezia. Questo lavoro di Trevi è un mosaico di parole e pensieri, dove le parole aggottano i pensieri e i pensieri le parole come il navigante la propria imbarcazione.

Scrivendo, mio padre rimediava a una mancanza di percezione diretta e immediata della vita; disegnando, andava nella direzione contraria: quella della evaporazione della coscienza di sé e del mondo.”.

Fabrizio Giulimondi

venerdì 30 agosto 2024

"IL COGNOME DELLE DONNE" di AURORA TAMIGIO



Vincitore del Premio Bancarella edizione 2024 “Il cognome delle donne” (Feltrinelli) di Aurora Tamigio è un bel romanzo che parte in maniera elefantiaca e disorientante per sviluppare nel corso d’opera in modo maggiormente incisivo, convincente, coinvolgente ed emozionale. Ideologicamente orientato, dove gli uomini sono prevalentemente mascalzoni, violenti e stupratori, “Il cognome delle donne” sviluppa letterariamente il film di grande successo di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”. Ricordando nello stile narrativo la quadrilogia “L’amica geniale” di Elena Ferrante, la Tamigio ripercorre la storia di una famiglia, da nonna Rosa alla figlia Selma sino alle tre nipoti Patrizia, Lavinia e Marinella, anche attraverso il richiamo ad eventi storici, politici, sportivi e di costume, alle stragi di mafia e agli attentati terroristici, dal fascismo ai giorni nostri.

La pigmentazione linguistica sicula si fonde con l’idioma italico dando una impronta di ragguardevole musicalità, una sorta di arpeggio idiomatico-sinfonico in cui le sonorità vanno a braccetto con la prosa neo realista, altalenandosi le storie fra letteratura, musica, cinematografia neo-realista de sicana e le interpretazioni di grandi stelle al pari di Virna Lisi. La sicilianità palermitana non solo costituisce l’ambientazione del romanzo ma anche il luogo sinergico fra diverse forme di arti nel loro progredire e mutare nel corso dei lustri.

La violenza, i soprusi e gli abusi percorrono lo sviluppo narrativo come la corrente elettrica il filo della luce. Ciò che prevale, però, è la determinazione nell’amore, nell’unione e nel ricordo.

L’amore oltrepassa la coltre del tempo e rende indistinguibile il confine fra il mondo dei vivi e quello dei morti che vivono ancora, ma da un’altra parte, invero non così distante da quella dei vivi.

Il cognome delle donne” è un lungo dialogo fra il visibile e l’invisibile, fra chi è ancora e chi è già andato, fra Rosa e suo marito Sebastiano Quaranta, fra Selma e le figlie Patrizia, Lavinia e Marinella, ragazze nascoste nelle pieghe del tempo, legate da un vincolo di amore eterno e verace, autentico e aspro.

Questo romanzo è “come prima di un temporale, quando il vento è elettrico e le veneziane sbattono un colpo dopo l’altro sul davanzale delle finestre”.

Chi legge partecipa della morte di Selma grazie a pagine memorabili fra corporeità e incorporeità. La tragicità di questo come di altri eventi si avverte materiale, percepita dai sensi umani. I sentimenti, le emozioni, i tratti salienti delle personalità delle donne e degli uomini che scorrono innanzi agli occhi del lettore sono “con-vissuti” dal lettore: lo sdegno, l’orgoglio, l’alterigia, la dignità, la risolutezza, la costumanza, la piccineria non sono espressioni impalpabili dell’animo ma appartenenti al reale, dimensioni dense avvisate dal corpo prima che dallo spirito.

Lo sdegno, l’orgoglio, l’alterigia, la dignità, la risolutezza, la costumanza si inverano e vivono non solo nella fisicità delle famiglie Maraviglia, Incammisa e Passalacqua, ma anche nell’intimità del lettore, che spesso la rifugge.

Fabrizio Giulimondi


martedì 27 agosto 2024

"COME L'ARANCIO AMARO" di MILENA PALMINTERI



L’essere umano privato delle sue radici è dimezzato senza che se ne accorga.

Quello stato di inquietudine che, talora, rasenta l’angoscia potrebbe avere la propria ragione su questa assenza, spesso avvertita negli strati profondi della coscienza ma divelta dalla propria razionalità. Un malessere che non si riesce a spiegare ma che insiste nelle esistenze di alcune persone: da dove vengo? Quali sono le mie reali origini? Chi è mio padre? Chi è mia madre? Quale è la mia autentica Terra natia?

È questo l’humus da cui è composto il retroterra della nostra dimensione quotidiana.

Milena Palminteri morbidamente narra questo stato percettivo, spesso inavvertito a livello di corteccia celebrale, in “Come l’arancio amaro” (Bompiani).

In “Come l’arancio amaro” il racconto si snoda in un lungo percorso interno all’anima tramite una complessa storia personale e familiare, originata negli albori del fascismo e approdata nel 1965 e che ha come set una Sicilia ancestrale e nobiliare, afosa e antica, dove le “serve” sono usate ad uso sessuale del “padrone”, “serve” che subiscono questi fatali abusi con vendicativa rassegnazione.

Ogni personaggio possiede un carattere marcato e, per quanto piccolo e agli angoli della scena, non v’è uomo o donna, giovane o vecchio, povero o ricco, che non dia un contributo determinante alla trama, che non spicchi con la propria specifica configurazione umana. Forse non esistono partecipazioni secondarie o comparse ma tutti sono resi protagonisti e co-protagonisti, intorno ai quali gravitano vicende che si vanno ad incastonare in altre vicende, e ancora e ancora.

L’Autrice parla di una umanità composta dai tanti individui che si affastellano nel romanzo, tutti legati da un unico filo conduttore: l’essere vittime, prima di tutto, di se stessi.

Come l’arancio amaro” riprende la grande tradizione della letteratura verghiana del verismo siciliano.

La tragicità di taluni accadimenti non è mai sospinta verso tinte fosche, sempre attenuati dalla irriverenza, dalla capacità sorniona e sfottente, dal cinismo o dalla dignità di attori che riescono a smussare i contorni cinerei dei fatti.

L’umanità nella sua declinazione oscura, furbesca e canzonatoria modella i personaggi che sembrano provenienti da un lontano passato, quello forgiato da commediografi Terenzio e Plauto, immersosi poi nelle acque veneziane di Goldoni per assumere, infine, le sembianze drammaturgiche e veristiche insulari.    

Le pagine sono pregne dei sapori della cucina siciliana e degli odori della zagara, autentiche colonne “sonore” gustative e olfattive del romanzo che non è fatto solo di inchiostro, ma anche di sensazioni corporali. Forse è lo stesso inchiostro che assorbe i sapori culinari e il sentore della pianta di arancio amaro quando è in fiore: ”…io dell’arancio amaro conosco solo le spine e oramai non mi fanno più male. Ma il profumo del suo fiore bianco è il tuo, ed è quello della libertà”.

Quale libertà? Quella di donne che prendono coscienza di cosa esse realmente siano e di quanto possano dare, prima di tutto, a se stesse: “Nessun albero come l’arancio amaro merita il nome di “pianta madre”: impavida, resiste a tutte le intemperie per compiere la sua missione, rendere forte e rigogliosa la nuova pianta che è altra da lei eppure da lei germoglia.”.

Fabrizio Giulimondi

domenica 7 luglio 2024

"L'ETÀ FRAGILE" di DONATELLA DI PIETRANTONIO (EINAUDI): VINCITRICE DEL "PREMIO STREGA NARRATIVA" e "GIOVANI" 2024



Donatella Di Pietrantonio possiede un tratto di penna leggero mentre narra la drammaticità di grandi storie con la lievità di una autrice di favole.

Già vincitrice del Premio Campiello nel 2017 con L’“Arminuta” e di altri prestigiosi premi con altre sue opere, ha realizzato una doppietta nell’ultima edizione del Premio Strega, vincendo sia quello per la narrativa che “Giovani”.

L’età fragile” (Einaudi) racconta più storie che confluiscono in un unico dramma, un dramma che il lettore neanche si accorge di vivere, avvertendolo lentamente ad ogni incedere delle pagine che scorrono dinanzi ai suoi occhi.

Amanda e Doralice non si conoscono ma non sanno di vivere gli stessi turbamenti dell’animo che scuotono nella medesima maniera le loro vite che trovano così difficoltà a ripartire.

I contorni dei personaggi sono incerti, confusi come l’orizzonte fra il cielo e la linea del deserto. Le loro personalità sono esattamente in quella zona indistinta dove la sabbia trasloca nel cielo che permane ancora giallognolo prima di spiccare in azzurro. I contorni non sono affatto marcati, l’occhio non ne vede la demarcazione, intravede un annuncio di cambiamento ma nulla è nitido, tutto è ancora opaco: l’arancione e il grigiastro si abbracciano mischiandosi nel celeste incerto della volta che, però, ancora trattiene qualcosa delle tinte amaranto del deserto irradiate dal timido lucore del sole che stenta ad albeggiare.

Le montagne nascondono sempre segreti perché segnano al meglio le contraddizioni della Natura: bellezza che cela una permanente violenza.

Le montagne costituiscono il proscenio di vicende che confluiscono in una sola per poi moltiplicarsi in molte altre: affluenti di un fiume che immette le proprie acque in un lago da cui originano molti emissari.

La pandemia ombreggia la narrazione con il suo manto divisivo di pazzia e irrazionalità.

Questo è “L’età fragile”: il pastello dell’inchiostro misto al colore purpureo del sangue affacciato sulla mobilità gelatinosa di non sapere più chi si è e chi sia chi ti sta accanto e che pensavi di conoscere.


Fabrizio Giulimondi   

lunedì 20 maggio 2024

"V13. CRONACA GIUDIZIARIA" di EMMANUEL CARRÈRE



Venerdì 13 novembre 2015 Parigi è stata teatro di un massacro ad opera della mano islamista.

La sala da concerti Bataclan, lo stadio di calcio e alcuni bistrot sono stati presi da assalto dall’odio terrorista musulmano che ha portato all’omicidio di 130 persone colpevoli di essere occidentali: 130 morti, un suicida per grave stato depressivo e centinaia di feriti nel corpo e nell’anima.

Emmanuel Carrère in “V13. Cronaca giudiziaria” (Adelphi) “dal 2 settembre 2021 al 7 luglio 2022, ha raccontato nei dettagli per i lettori dell’’Obs la brutta storia, piena di lacrime e sangue, di quel maledetto 13 novembre 2015”.

Dal 2 novembre 2021 al 7 luglio 2022 si è svolto il processo ai fiancheggiatori e favoreggiatori degli stragisti, morti dopo essersi fatti saltare in aria. L’Occidente ama la vita, costoro la morte, propria e altrui.

Il processo di “V13” non è più soltanto la sede nella quale si amministra la giustizia ma un rito collettivo di metabolizzazione del dolore che perde, così, i suoi connotati individuali per elevarsi a interiorizzazione della tragedia vissuta, mutando da orrore solipsico a riconoscimento del proprio dolore per mezzo della sofferenza dell’altro, così diversa e così eguale. L’angoscia altrui comprende anche il proprio dramma che, acquisendo una forma comunitaria, assume una nuova qualificazione, una nuova struttura, una diversa dimensione. È proprio la dimensione della terribile afflizione provata a modificarsi elevandosi da percezione individuale a ultra-individuale: “Ci hanno dato un luogo, e del tempo, tutto il tempo necessario per fare qualcosa del dolore. Trasformarlo, metabolizzarlo. E ha funzionato. Questo è quello che è successo. Siamo partiti, abbiamo fatto questa lunga, lunga traversata, e adesso la nave entra in porto. Scendiamo a terra”.

Il lutto necessita sempre di una elaborazione per non cadere nella disperazione, o, peggio ancora, nella autoeliminazione fisica, psichica o morale. Se il lutto coinvolge centinaia di persone allora abbisogna di un lavoro interiore di gruppo accompagnato da una cerimonia formale collettiva: il processo.

Il processo raccontato minuziosamente con grande partecipazione emotiva dall’Autore non è solo una concatenazione di formule, atti e comportamenti aventi valore giuridico, bensì, e soprattutto, un procedimento umano che dall’interno degli animi, delle menti e dei cuori dei protagonisti del Bataclan viene proiettato all’esterno e reso visibile ed intellegibile a tutti, a partire dalle stesse vittime.

Letteratura, psichiatria, cronaca e taqiyya si interconnettono a tale punto da divenire una rete inestricabile.

Fabrizio Giulimondi    

lunedì 13 maggio 2024

“L’AVVERSARIO” di EMMANUEL CARRÈRE (ADELPHI, 2013)



Uscire dalla pelle del dottor Romand significava ritrovarsi senza pelle. Più che nudo: scorticato”.

L’Avversario” di Emmanuel Carrère (Adelphi, 2013) è un libro scioccante basato su una storia vera. Nonostante sia come un lungo racconto che può essere letto in poche ore, “L’Avversario” crea problemi di non poco momento nel lettore, che deve ripetutamente frapporre fra il libro e se stesso più di una interruzione per placare lo stato di disagio che avverte nel suo animo.

Il 9 gennaio 1993 è la data di un crimine mostruoso compiuto in Francia: un uomo uccide a sangue freddo la moglie, i due figli, il padre e la madre.

Quest’uomo per diciotto anni ha costruito una dimensione esistenziale e professionale del tutto inesistente. Famiglia e figli hanno pensato che lui fosse ciò che non è mai stato. Quest’uomo per diciotto anni ha mostrato al mondo quello che sotto l’aspetto umano e lavorativo non è mai esistito. Per diciotto anni la finzione ha sostituito la realtà, la menzogna la verità visibile.

Bastavano semplici e banali controlli per capire che era tutto falso, ma quei semplici e banali controlli nessuno in diciotto anni li ha mai posti in essere.

Il lettore, grazie alla raffinata capacità narrativa di Carrère, è gettato in un reticolato mentale inestricabilmente tessuto con i fili del falso pedissequamente sostituito al vero. La penna dell’Autore intinge nei neuroni allucinatori del protagonista che viene travolto dal proprio incubo, incessantemente fabbricato in diciotto anni di falsità che figliavano falsità e ancora falsità. Il protagonista è solo l’artefice originario delle menzogne per poi divenirne nel lungo termine la vittima.

Pirandello assume le vesti di complice letterario inconsapevole di una agghiacciante strage.

L’inganno non cessa mai, nemmeno durante il processo, neppure dopo la condanna, neanche in carcere e la stessa fede religiosa e la conversione non sono altro che l’ennesimo prodotto dell’”eterno Avversario”.

Psichiatria, ritualità quotidiana e familistica e letteratura partoriscono un lavoro che getta chi lo legge in una perturbante riflessione di non facile soluzione.

Uno scritto profondo per menti profonde e culturalmente attrezzate.

Fabrizio Giulimondi

lunedì 11 marzo 2024

"CARACAS" di MARCO D'AMORE

 








Una Napoli alchemica, una Napoli sotterranea, una Napoli misterica, una Napoli tormentata, una Napoli fra fasti e degrado, fra nazi-fascismo e islamismo, una Napoli onirica: questa è l’opera di Marco D’Amore,Caracas”, con un sempiterno straordinario Toni Servillo e lo stesso regista che riveste anche i panni di attore co-protagonista, pur se non riesce ad abbandonare il ruolo di Ciro nella serie televisiva “Gomorra”.

Le tinte rosso plumbee accompagnano una fotografia incantevole (Stefano Meloni) lungo molteplici storie poggianti sulle immaginifiche creazioni intellettuali di un venerato scrittore partenopeo, Giordano Fonte (interpretato da Toni Servillo), che, fra realtà e proiezioni della mente, ritorna in una Napoli irriconoscibile, nella quale Caracas (Marco D’Amore) si sbatte nella ricerca disperata di una verità, di una certezza, che sia il Duce o Allah, l’amore o l’amicizia.

La pellicola traccia molte narrazioni, quante sono quelle vaneggiate da Fonte e quelle ricostruite dallo spettatore, che si imbatte nella densità dell’arpeggio recitativo di Servillo, nella pungente musicalità dialettale di D’Amore e nella tragica fisicità e mimica della sua donna tossica, Yasmina (Lina Camelia Lumbroso).

L’attenzione dello spettatore deve punteggiare ogni scena girata: la distrazione rimuove la poeticità artistica dell’ambientazione e delle sue multiformi atmosfere.

Fabrizio Giulimondi


martedì 5 marzo 2024

"LA ZONA D'INTERESSE" di JONATHAN GLAZER : PREMIO OSCAR 2024 COME "MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE"

 


Forse la traduzione del titolo del film di Jonathan Glazer non è corretta: “La zona d’interesse” è lo “spazio vitale” di cui, secondo la demoniaca mente di Hitler, necessitavano le popolazioni germaniche nei territori dell’Est europeo.

L’opera ha una sceneggiatura (Jonathan Glazer e Martin Amis) ed una fotografia (Lukasz Zal) fuori dal comune, mentre la trama racconta quanto sia banale il Male, volendolo dire con la Arendt.

Rudolf Höß (Christian Friedel) è un padre premuroso e un marito attento e gentile, cortese con i propri collaboratori e sottoposti. Rudolf Höß è stato il comandante del più terrificante campo di sterminio nazista: Auschwitz.

Un lavoro cinematografico veramente particolare, nel quale il set principale è la villa con giardino dove vivono Höß e la sua famiglia, a pochi metri dal muro di cinta del campo.

L’orrore è indiretto, di rimando, visibile e invisibile, avvertito in chiave quasi subliminale dalla costante colonna sonora cadenzata dagli spari delle esecuzioni e dalle urla soffocate dei martirizzati, oltre dalla onnipresente cenere che regna ovunque

I primi piani delle splendide corolle dei fiori contrastano con le chiazze rosse accese dilaganti come simboliche macchie vermiglie di sangue, che si estendono con il dilagare del genocidio.

L’annientamento è sotto gli occhi di tutti, non solo di una sparuta truppa di SS, ma di centinaia di migliaia di soldati, civili e lavoratori con ruoli amministrativi.

La serena quotidianità e l’Inferno oltre il muro, ossia l’allegoria del presente.

Bellezza e orrore: la capacità del Regista di far percepire e far vivere quest’ultimo senza alcun segno di violenza.

Il finale è geniale e rimetto valutazioni ed interpretazioni agli spettatori, nell’auspicio che almeno una nomination all’Oscar vada in porto.

Fabrizio Giulimondi