giovedì 13 ottobre 2011

DEMOCRAZIA E AUTORITARISMO NEL DIRITTO PENALE.


Democrazia e autoritarismo nel diritto penale.
A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino
                                              
 Fabrizio Giulimondi

Arnin, scrittore tedesco del Romanticismo, ebbe a dire: '' Ma ció che è stato taciuto non muore per questo, ed é folle l'apprensione per ciò che non può perire…. lo spirito ama le sue opere come un segno dell'eternità…''. Infatti, all'indomani delle due guerre mondiali, un passato di profonde rivendicazioni culturali e sociali torna a farsi strada nelle coscienze delle generazioni; si afferma, con rinnovato vigore, il pensiero di grandi uomini del passato.
Trascorso il periodo rappresentato dagli anni del regime autoritario in Italia e di quello totalitario in Germania, in Unione Sovietica e negli altri Paesi europei dell’ex blocco comunista, come in un ''riflusso di coscienza'' ritornano in auge le spinte democratiche che avevano animato l'Ottocento liberale e il primo Novecento. In Italia, infatti, il pensiero di giuristi quali Carrara, Lucchini, Stoppato, Carnelutti, che avevano dato voce alle ''ragioni''del presunto innocente, prendendone ''in mano la bandiera'' e che avevano affermato con decisione il principio di civiltà per cui ''è meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente '', viene salvato e attualizzato dai nuovi giuristi dell'epoca post-bellica. D'altronde la consapevolezza delle degenerazioni che può subire l'organizzazione politico-sociale di uno Stato, in mancanza di ''anticorpi democratici'', così come era avvenuto durante l'epoca fascista in Italia, nazista in Germania e comunista nell’ex Unione Sovietica e negli altri Paesi dell’est Europa, rappresentava sicuramente un forte termine di paragone che invitava a vegliare, attentamente, sulla sorte pericolosa che le garanzie della persona possono subire in uno Stato totalitario o in uno autoritario.
Per comprendere al meglio le degenerazioni e le gravissime storture che i regimi autoritari e totalitari del secolo scorso e le ideologie che li informavano hanno portato al diritto penale, è sufficiente verificare come essi hanno approcciato il principio di legalità, l’istituto della analogia e quello della irretroattività della norma penale incriminatrice.
Il principio di legalità sostanziale e l’analogia in malam partem costituiscono lo strumento primario nei regimi nazista e in quello comunista per attuare pretese esigenze di difesa sociale e di una più sostanziale giustizia, consentendo di punire ciò che è socialmente pericoloso anche se non previsto come reato dalla legge e di non punire ciò che è socialmente non pericoloso anche se previsto dalla legge come reato.
Oltre che nel diritto penale nazional socialista, in cui l’amplissima riformulazione del par. 2 c.p. introdusse quanto meno il procedimento analogico come mezzo per adeguare la legge al sentimento giuridico del popolo, ciò è riscontrabile, segnatamente, nel diritto penale dei paesi socialisti, soprattutto nelle fasi rivoluzionarie o di assestamento della nuova società, in cui l’analogia è fondamentale strumento per adeguare la norma penale al divenire della legalità socialista. Come appunto avviene tutt’oggi in Cina e in Corea del Nord e, come avveniva nell’ex Unione Sovietica fino alle riforme del 1958/60 e nelle ex repubbliche popolari europee prima del loro allineamento alle riforme sovietiche .
Non esiste, invece, una necessaria correlazione, ma soltanto una consolidata tendenza, tra ordinamento liberal-democratico e divieto di analogia, come comprova il fatto che in paesi di radicata tradizione democratica, quali i Paesi scandinavi e il Regno Unito, non esiste un tale espresso divieto, senza che con ciò siano scosse le garanzie dei destinatari della norma penale. In verità la pericolosità o la convenienza dell’analogia dipendono dalla mentalità e finalità con cui il giudice fa ad essa ricorso e, in definitiva, dal grado di consenso generale sui valori fondamentali di democraticità di un popolo, dall’indipendenza e imparzialità della magistratura e dal costume giudiziario. Nel nostro paese l’atavico timore per l’arbitrio del giudice ed una realtà politico-giuridica, che non esclude condizionamenti esterni sul potere giudiziario come pure un uso alternativo del diritto per finalità ideologiche di parte, porterebbero a guardare con non infondato allarme l’abolizione del divieto di analogia.
L’analogia, ammessa dall’art. 1 del codice danese, non è espressamente riconosciuta in Norvegia e in Svezia, dove però sono usati nella formulazione della fattispecie termini generici, che non pongono delle limitazioni nette alla punibilità e che, d’altro canto, non consentono una chiara distinzione tra interpretazione ed applicazione analogica della legge; sicchè certi risultati della pratica giudiziaria norvegese e svedese si ritiene che costituiscano, in realtà, dei casi di applicazione analogica.
Il principio della retroattività della norma penale incriminatrice trova il suo fondamento nell’esigenza, propria della legalità sostanziale, di una più efficace difesa sociale ma anche di una più sostanziale giustizia, non ritenendosi giusto lasciare impuniti, per lacune legislative, gli autori di fatti antisociali che hanno dato causa alla nuova legge penale.
Tale principio ha trovato accoglimento nel diritto penale socialista, il quale, nella sua intrinseca esigenza di “conformità allo scopo”, deve ammettere la possibilità di colpire ogni momento, le manifestazioni contrarie alla dittatura del proletariato e, in particolare, a quelle antagonistico – controrivoluzionarie, riconducibili alla origine borghese dei loro autori: la legge penale, quindi, ha lo scopo di colpire innanzitutto i controrivoluzionari esistenti per i crimini commessi prima della sua entrata in vigore. Nell’Unione Sovietica il principio di retroattività, addirittura superato nel periodo del comunismo di guerra con la creazione giurisprudenziale del diritto, trovò esplicita consacrazione nel codice del 1922 e frequenti applicazioni pratiche anche sotto il codice del 1926, che non disciplinava l’efficacia della legge penale nel tempo, ogni qualvolta la retroattività della nuova legge penale si rivelasse “conforme allo scopo rivoluzionario”. Con il ritorno al principio del nullum crimem sine legge (1958-60) si ha parimenti la formale consacrazione – scomparse le contraddizioni antagonistiche – del principio di irretroattività, che in pratica continuò a subire delle deroghe motivate dall’esigenza dell’esemplarità di una severa condanna.
In Cina il principio di irretroattività era, dalla legge del 1951, respinto per le leggi destinate ad operare mutamenti sociali, quale quella sulla repressione dei controrivoluzionari, pur essendo il trattamento per le infrazioni anteriore all’entrata in vigore della legge retroattiva meno severo. Ed è stato introdotto dal codice del 1980, per i fatti, però, commessi dopo l’instaurazione della Repubblica Popolare cinese.
Per la sua intrinseca strumentalizzabilità quale mezzo di terrorismo e di vendetta politica, il principio di retroattività ha finito, fatalmente, per essere adottato dal totalitarismo più spietato. Da quello staliniano a quello nazista, il quale, pur mantenendo ferma nel par. 2 del codice penale la irretroattività della legge incriminatrice e rendendo facoltativa la retroattività della legge più favorevole, derogò al principio della irretroattività nelle leggi speciali a difesa dello Stato, ivi compresa anche la pena di morte. Retroattive furono pure certe leggi emanate nei Paesi soggetti alla dominazione nazista, quale la legge francese del 7 agosto 1941, istitutiva di un Tribunale di Stato incaricato di giudicare gli attentati allo “sviluppo della ricostruzione nazionale intrapresa dal governo Pètain”; l’ord. 1 marzo 1944 del Commissario tedesco per il litorale adriatico, che puniva con la pena di morte qualsiasi furto commesso durante l’oscuramento, nonché il D.L. 11 novembre 1943 del capo del R.S.I., istitutivo dei tribunali straordinari incaricati di giudicare traditori della rivoluzione fascista. E retroattiva fu pure la legge greca dell11/14 luglio 1967, che perseguiva gli atti antinazionalistici compiuti dai cittadini greci all’estero.
Questa prospettiva storico-ideologica può essere utile per operare un proficuo confronto, sul piano del diritto penale, tra il differente grado di riconoscimento e tutela che i diritti individuali e, tra questi, quello della protezione dell'innocente, ricevono nei diversi regimi democratici, autoritari e totalitari e, altresì, per comprendere, anche sulla base della tradizione, come classificare e interpretare l'intervento punitivo dello Stato all'interno delle nostre società democratiche. I ''problemi della modernità'', derivanti soprattutto dal progresso tecnologico e scientifico, impegnano il diritto penale in prima linea nella ricerca di una possibile soluzione. Troppo spesso, il bisogno, le continue richieste di sicurezza della collettivitá, dinanzi all'impossibilitá di fronteggiare i rischi del progresso, hanno portato il giudice penale a pronunziare vere e proprie condanne di innocenti, calpestando o stravolgendo le stesse norme di diritto sostanziale. Pertanto, si pone, impellente, per il diritto, l'esigenza di trovare degli strumenti idonei tanto a fronteggiare il bisogno di sicurezza della modernitá, tanto a diminuire il rischio della condanna di innocenti. È preliminare, dunque, porsi degli interrogativi di fondo: 'Qual è il ''peso'' che i diritti fondamentali e i ''principi'', tra i quali viene in rilievo quello della ''presunzione di non colpevolezza'', rivestono concretamente nelle democrazie contemporanee?
È, nella seconda metà del Novecento in particolare, che viene condivisa da tutti i processualisti l'opinione per cui la protezione dell’innocente sia un principio cardine dell'ordinamento.
La Costituzione del 1948, con l'articolo 27 comma 2, si ricollega al principio della '' presunzione di non colpevolezza'' enunciando: ''L'imputato non è considerato colpevole sino alla sentenza definitiva'', mentre il paragrafo 2 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e l'art. 11 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo parlano più esplicitamente di “presunzione di innocenza”.
Ma bisogna attendere gli anni Sessanta perché la dottrina italiana solleciti una maggiore valorizzazione costituzionalmente orientata dei diritti della persona specie in campo giuspenalistico accanto alle spinte d'avanguardia prospettate dal nostro Costituente. E’ su questa spinta che la giurisprudenza supera la iniziale difficoltà di scardinare la scala di valori che il fascismo aveva imposto capillarmente anche nel mondo del diritto, reinterpretando i principi vigenti in epoca liberale e passati attraverso il Regime alla luce del cambiamento democratico; tale trasformazione è stata inevitabilmente ardua nel passaggio da un passato sconfitto e un futuro ignoto e da riorganizzare. Di qui anche la ragione di una mancata ricodificazione delle leggi penali fasciste in aderenza ai principi costituzionali.
Il punto centrale è questo: l'ordinamento penale incide sul bene costituzionale primario rappresentato dalla libertà personale costituzionalmente garantito dall’art. 13 e, la privazione della libertà non può essere giustificabile sulla base di un semplice giudizio di probabilità, bensì dalla prova della colpevolezza dell'imputato; in caso contrario il giudice deve assolvere. La colpevolezza è uno strumento irrinunciabile della imputazione individualizzante di responsabilità'': se non v'è rimproverabilità individuale, non può esservi pena.
Conseguentemente e in ragione di quanto detto diviene evidente l'esigenza di mettere al sicuro l'individuo e i suoi diritti sostanziali e processuali nel settore giuspenalistico contro ogni forma di violazione giuridica e sociale: la comunità politica può e deve impegnarsi a dar vita a una nuova cultura della libertà e del rispetto dell'essenziale dignità dell'individuo.
A questo punto proviamo a fare un passo indietro e riprendiamo i principi della protezione dell’individuo innanzi al potere punitivo statuale all'interno del momento storico e ideologico della Germania del dopoguerra e dei Paesi dell’ex blocco comunista a seguito della caduta del muro, analizzando i risultati a cui la loro cultura giuridica è approdata.
In Germania vi è stata fatalmente una tardiva riscoperta dei principi garantistici, dovuta alla difficoltà di uscire spiritualmente e non solo temporalmente dallo Stato totalitario. Con fatica si fanno strada all'interno del processo penale i diritti fondamentali dell' individuo quali la libertà, la dignità umana e la salvaguardia della sua personalità morale che, parimenti al dovere di punizione della condotta delittuosa, entrano in gioco nel tessuto delle regole penali sostanziali e processuali e sono valutati non solo dal Legislatore, ma anche dalla Autorità giudiziaria germanica. Pertanto, fino a quando non possa muoversi ad un individuo un rimprovero soggettivo per la sua condotta, non può essere giustificata alcuna forma di condanna; il singolo deve essere riguardato come persona, con tutto il suo corredo di umanità, inserito all'interno di rapporti morali e sociali da cui, altrimenti, non può essere distolto.
La posizione di svantaggio dell'imputato, nell'ottica della protezione dell'individuo dinnanzi all'onnipotenza del potere punitivo dello Stato, trova la sua salvaguardia nella Germania post nazional-socialista , sul piano del diritto sostanziale, nei principi nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege, enunciati dall'art.103 comma 2, della Costituzione tedesca e, sul piano processuale, nel principio ''nessuna pena senza prova di colpevolezza''.
La pretesa punitiva dello Stato, orientata secondo principi di politica criminale, trova il suo sbarramento nella priorità della protezione dell' innocente e nel limite al potere del giudice di irrogare pene arbitrarie, limite derivante dall'operatività dei principi fondamentali dell’essere umano e nella stessa legittimazione del diritto penale che si fonda nella Comunità, in nome e nell'interesse della quale lo Stato agisce. La comunità è un momento di relazioni feconde: il singolo si muove nella sicurezza di poter liberamente esplicare la propria personalità e nella certezza di non vedere degradata la sua dignità spirituale e morale. Una società in cui, dunque, come il filosofo Kant affermava ''un uomo non può mai essere usato da altri uomini come strumento per raggiungere dei fini''.
Il riconoscimento primario della dignità umana, accolto dalla nostra Costituzione all' art.3 comma 1, è il cardine a cui aggrapparsi per non cadere in un diritto penale che sacrifica o strumentalizza il singolo individuo alle esigenze della comunità. Tra queste, si segnala, all'interno della nostra società del rischio, il bisogno di sicurezza nei confronti dei pericoli nascenti dallo sviluppo tecnologico-scientifico da una parte e dal contatto con altri popoli dall’altra, che non può, però, dar luogo ad un uso esponenziale della potestà punitiva dello Stato, a scapito dei diritti essenziali della persona. Anche la cultura giuridica tedesca contribuisce così, con le sue analisi, all'affermazione democratica della necessità della protezione dei diritti inviolabili dell’individuo, in uno Stato che voglia assicurare la tutela effettiva dei diritti individuali ai suoi cittadini e, anche se non esplicitamente previsto dal codice, la dottrina tedesca ribadisce con fierezza che l' ''in dubio pro reo'' è diritto vigente.
Spostandosi geograficamente verso l’Europa orientale, al pari del cambiamento culturale, giuridico e normativo anche a livello costituzionale avutosi nella allora Germania occidentale, il dibattito sulla presunzione di innocenza, sulla regola dell' in dubio pro reo, nonché sui diritti di libertà della persona, anche nei Paesi al di là della c.d. cortina di ferro ha subito uno sviluppo significativo.
Numerosi furono i processi durante gli anni che succedettero alla Rivoluzione d’ottobre in Unione Sovietica e numerose le voci messe a tacere perché etichettate come ''di opinione borghese'', tanto che una scrittrice dell'epoca ebbe a dire:'' Per trovarsi in un campo di lavoro sovietico, non è necessario commettere un crimine…''.La presunzione di innocenza trova inizialmente un importante riconoscimento, nel 1965, in una Nuova Enciclopedia dei concetti legali sovietici. Le affermazioni in essa riportate tendono a ribadire la natura del principio quale perno sul quale poggia l'amministrazione della giustizia penale e in virtù del quale ogni altro principio acquista significato. Dalla presunzione di innocenza deriva, infatti, la regola per cui l'onere probatorio è a carico dell'accusa e che tutti i dubbi irrisolti sono a carico dell' imputato. La corrente progressista non si arresta e arriva a riconoscere nel principio il fondamento di una democrazia reale, non formale, democrazia che vuole riconoscere i diritti fondamentali degli individui e assicurare loro la sicurezza di un processo che non si pieghi a situazioni di opportunità o a strumentalizzazioni politiche, come era avvenuto, invece, negli anni del regime totalitario. Ma, anche qui, è a partire dagli anni sessanta che maturano i frutti più significativi. In Ungheria, il codice di procedura penale codifica il principio dell' ''in dubio pro reo'' e la dottrina riconosce apertamente che la colpevolezza dell' imputato deve essere provata ''al di lá del dubbio''. In questo clima di profondo rinnovamento vengono condotti i lavori preparatori per la nuova Costituzione della Federazione Russa, approvata il 12.12.1993. Essa si pone in posizione antitetica rispetto al passato. Non sembra potersi cogliere nessuna traccia di continuitá storica e ideologica col mondo del leninismo-stalinismo; l'unico richiamo al passato è per onorare la memoria degli avi, che hanno saputo trasmettere la fede nella giustizia e nel bene. Viene affermato il diritto alla pace e alla concordia civile, il principio di uguaglianza nei diritti e di autodeterminazione dei popoli. All'art.49 viene stabilito che l' ''imputato non ha l'obbligo di dimostrare la propria innocenza, e che ''dubbi insormontabili sulla colpevolezza di una persona sono interpretati a favore dell' accusato''. Un forte spirito di democrazia e libertá sembra dunque animare i principi della Costituzione russa. La legge costituzionale introduce in quella penale lo spirito di clemenza che le era mancato negli anni del totalitarismo e soprattutto i principi di garanzia della dignitá e della libertá della persona umana. Questi sono rappresentati dalle ''specificazioni'' della regola dell' ''in dubio pro reo'', necessarie per assicurare la tutela dell'innocente da ogni possibile forma di ''inquisizione'' giuridica o sociale.
È molto forte il rischio che l'uomo, nella frenesia del mondo odierno, perda la consapevolezza dei suoi passi. Il fine è nel senso di riuscire a cogliere concretamente la pericolosità del nostro sociale in relazione a ciascun divisore che la costituisce: spostiamoci sull'uomo e sul rischio di essere uomo all'interno della rivoluzione del suo tempo. Ci accorgeremo della forza eterna della libertà dello spirito, che è in grado di fargli recuperare il passo anche quando sembra, oramai, essere troppo tardi.

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