Siamo
giunti alla fine del 2013 e il libro di
fine d’anno che Vi propongo è l’ultima fatica del magistrato - scrittore, già parlamentare nazionale del
Partito Democratico nella legislatura 2008 – 2013, Gianrico
Carofiglio “Il bordo vertiginoso
delle cose” (Rizzoli). Questa
Rubrica ha già recensito un’opera di Carofiglio,
“Il silenzio dell’onda” (Rizzoli),
finalista del Premio Strega 2012, e di lui avevo letto in precedenza “Ragionevoli
dubbi” (Sellerio), che vede il ritorno come protagonista dell’avvocato
Guarnieri.
Carofiglio ha
uno stile scorrevolissimo, piacevole ed immediato, tanto che “Il bordo vertiginoso delle cose” lo si legge in un battibaleno. Nei
suoi scritti sono visibilmente presenti tracce della sua professione magistratuale
(ad eccezione proprio del romanzo in
commento), con continui riferimenti ad attività e terminologie di natura poliziesca e giudiziaria, oltre del suo animo
di sinistra, con persistenti richiami all’antifascismo e alla violenza dei “neri”. Tale passione ideologica
si rintraccia anche in questo libro, unitamente ad un coraggioso richiamo di
verità alla brutalità cieca e pericolosa dell’altro fronte, incarnata da uno
dei due coprotagonisti, Salvatore, inserito nella galassia extraparlamentare comunista
della metà degli anni settanta, dedito all’odio contro i c.d. fascisti, sempre pronto a ferirli ed a ammazzarli.
“Il bordo vertiginoso delle cose” a
livello figurativo è paragonabile all’arte del pittore statunitense Jackson Pollock, uno dei principali esponenti della
corrente artistica dell’espressionismo astratto, a partire dal titolo, che
riprende un verso di Robert Browning “A noi preme soltanto il bordo vertiginoso delle cose”, per passare
al potpourri e mixage
dotto, erudito, colto, raffinato ed intelligente, di riferimenti filosofici e letterari. Vi sono stralci di lezioni sui
massimi pensatori greci dell’antichità da Platone ad Aristotele, evidenziando le
concezioni dei sofisti come Protagora,
Gorgia e Antifonte, lucidamente esposti dalla seconda protagonista, Celeste,
la supplente di filosofia di cui Enrico si innamorerà e che cambierà in lui l’approccio
con la scuola (“Era la sua capacità di
trattare gli argomenti partendo da spunti inattesi per giungere a conclusioni
sorprendenti, che la rendeva ancora più bella di quanto non fosse in realtà.
Nei suoi discorsi c’era una grazia vertiginosa a e una capacità di evocazione
delle intelligenze, dalle quali era impossibile non restare incantati”).
La
colonna sonora della narrazione è
costituita dai brani dei grandi cantautori italiani e stranieri dell’epoca, da
Francesco de Gregori a Neil Young, e la
stessa individuazione cronologica è compiuta non direttamente ma attraverso richiami
cinematografici, come al film del 1977 di Woody Allean Io ed Annie.
Il
protagonista, un po’ patetico, un po’ melodrammatico, un po’ simpatico, è Enrico. Nutro il motivato sospetto che le vicende
che lo vedono coinvolto abbiano un qualche sapore autobiografico, a partire dal
nome (Enrico-Gianrico), dall’ambientazione a Bari, località natia di Carofiglio (la dovizia di particolari
descrittivi e le molteplici citazioni di strade e piazze appartengono più ad un afflato
dell’anima che al mondo della toponomastica), nonché al periodo storico della adolescenza
scolastica di Enrico, risalente proprio
agli anni degli studi superiori dello Scrittore.
Enrico
è un letterato di origini baresi che vive a Firenze. Dopo il grande successo
della sua opera prima, ha il classico blocco dello scrittore. Vicissitudini
personali aggravano la sua situazione: la perdita della madre e la fine del
rapporto sentimentale con la ultradecennale convivente. Nasconde la propria crisi mentendo a sé stesso e agli altri.
Legge
sul giornale di una rapina a Bari finita con l’uccisione del rapinatore. Lascia
Firenze per recarsi qualche giorno a Bari, anche se non sarà affatto per qualche giorno.
Il
rapinatore morto è Salvatore, suo compagno al primo liceo classico, già a quei
tempi violento attivista politico di sinistra e “allenatore” in una palestra clandestina, dove si addestrano i picchiatori “compagni” ad
aggredire o difendersi dagli aggressori “fasci”. Salvatore diventerà un
terrorista rosso dedito alle rapine come strumenti di finanziamento delle
attività eversive. In questa palestra viene cooptato anche Enrico, più
interessato, però, all’insegnante, Celeste, che sostituisce il titolare della cattedra in
materie filosofiche. Le sue lezioni lo coinvolgono intellettivamente, ma,
soprattutto, sensorialmente, portandolo ad un rapido innamoramento.
“Il bordo vertiginoso delle cose” è racconto
di occupazioni, autogestioni, cazzotti, calci, testate sul naso, risse, follia,
odio fra fazioni che hanno portato la Repubblica nel baratro per lunghi anni. E’
ricordo di un certo antifascismo fatto di
spranghe e chiavi inglesi, molto simile a quel fascismo, simbolo di soprusi e
di sangue, che si voleva combattere. E’ viaggio
fra amori perduti e impossibili di uno
studente per la professoressa, che poi il tempo potrebbe rendere possibile. E’
un amarcord dell’Autore per un
passato, il suo, il nostro, vissuto da diverse barricate.
L’immersione
di Enrico in quel tempo, in quella seconda metà degli anni settanta, la rentrèe al primo liceo classico dell’Istituto
Orazio Flacco di Bari, le reminiscenze non più nebulose ma vivide di Celeste e
Salvatore, degli altri compagni di
classe, degli altri docenti, smuovono la
fuliggine che si era addensata in lui: solo la ricerca di Celeste per incontrarla di nuovo potrà far sì
che il passato diventi presente e, nel presente, arrivi un nuova creazione
letteraria.
Malinconia,
sensazione di irrimediabile fallimento e
sconfitta, pervadono ogni singola riga, come una nebbiolina inconsistente
ma fastidiosa. Verso la fine, lentamente ma inesorabilmente, si dissipa,
scompare, intravedendosi prima soffusamente, poi più marcatamente, i raggi del
sole, quei raggi di sole che traspaiono quando le nuvole che si erano pericolosamente abbassate su un viottolo di campagna finalmente si
alzano.
L’Autore
fa dire a Stefania, a cui Enrico dette
il suo primo bacio, scampata ad un tumore ai polmoni:” Allora pensavo alle cose che non avevo fatto, al tempo sprecato e
venivo presa da una terribile malinconia. Contemplavo la mia vita da quello che credevo fosse il mio
letto di morte….( a cosa pensavi?) Al tempo sprecato…ai libri che non avevo
letto, alle cose che non ero capace di dire alle persone cui avrei dovuto dirle….
Ai viaggi, alle passeggiate non fatte….pensavo a tutti i rischi che non avevo
voluto correre.”.
Fabrizio Giulimondi
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