“Il Cardellino” di Donna Tartt (Rizzoli), vincitore lo scorso 15 aprile del “Premio Pulitzer” 2014 ,
esprime il punto di unione e fusione
fra letteratura, teologia,
filosofia, pittura e arte antiquaria,
che divengono un unicum attraverso il
“sublime” che tutto condensa e assorbe.
Un
viaggio attraverso la sacralità della pittura, il mistero degli spazi museali,
la bellezza struggente e immortale della letteratura, la polverosità
invincibile, antica e immutabile dell’antiquariato, lungo un percorso di
disfacimento mentale e fisico da assunzione massiva di droghe e alcol, da
disperazione e solitudine.
“Il Cardellino” è
una tempesta ormonale letteraria, una possente cascata di parole, un
volumetrico scroscio di aggettivi, un roboante diluvio di descrizioni, una
instancabile e mai noiosa narrazione, una densa rappresentazione scritta
colorata, entusiasmante, ricca di un florilegio di allocuzioni. Affascinante l’incedere
della narrazione di una Scrittrice che incarna la più nobile tradizione della
letteratura americana e che fa restare senza fiato per lo splendido puntiglio linguistico, che infonde anche nel minimo dettaglio, senza
mai stancare il lettore. Solo una letterata di raro talento – già Autrice di Dio di illusioni e prima in classifica con il lavoro in commento negli
States, in Olanda e in Francia – può riuscire
a non tediare il pubblico, anzi a tenerlo avvinto
alla sua creazione, nella illustrazione compiuta con maestria di ogni passaggio,
anche il più (apparentemente) inutile e ininfluente, della storia. Lo sviluppo
narrativo è cesellato con la finezza di un linguaggio che saltella dall’inglese,
al russo, all’ucraino, all’olandese, all’italiano, impreziosito da terminologia tecnica
appartenente alle arti pittoriche e antiquarie.
Il
lettore viene affascinato da ogni tratto di penna della Tartt - come se fosse il
tocco di un artista espressionista - che
rende aristocratico anche ciò che è putrido, sordido, immondo e meschino. L’improvvisa
violenza di certi momenti ricorda alcune
tele di Mirò, le opere cubiste di Picasso e la follia surrealista di Dalì: improvvisi spruzzi linguistici
allucinatori, psichedelici e deliranti, pagine e pagine di uso delle parole
come fuochi d’artificio che si ricompongono in quotidiane vicende che, dalla
normalità, subitaneamente, si tramutano in impreviste scene di azione, per
poi - al pari di una metamorfosi inaspettata
- modificarsi in squarci di tenera
effusione di sentimenti, amorosi o amicali, drammaticamente veri o astutamente
camuffati. I vocaboli trasudano emozioni e provocano nel lettore esattamente la
sensazione che la Tartt voleva che egli provasse:
sofferenza morale, disagio psichico, dolore fisico, malessere nell’anima,
dolcezza, odio, amore, amicizia, sentimenti violentemente contrastanti fra di
loro e terribilmente autentici. Le parole sono plasmate come creta e l’Autrice
ne fa l’uso indicato da Sartre: segni visibili che possano rendere intellegibile
il mondo interiore, far fuoriuscire all’esterno come lava eruttata da un
vulcano ciò che è dentro all’Autore. Donna
Tartt sa che ciò che è nascosto nelle pieghe della sua anima è celato anche
negli anfratti interiori dei suoi
lettori ai quali, con una socratica opera maieutica, fa sgorgare sentimenti sino
ad allora sconosciuti persino a loro stessi. L’utilizzo funambolico dei termini e delle espressioni idiomatiche anglosassoni della
Tartt (mirabilmente tradotti da Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai) ricorda lo
stile di Tom Wolfe, distanziandosi però da questi per l’assenza dei caratteri
futuristici e gotici.
Chi si
accinge alla lettura di questo capolavoro scopre la vita di un bambino di
tredici anni, Theo, a cui muore la madre in un museo newyorkese a causa di un attentato
terroristico, e le pagine ad esso dedicate raffigurano con potenza evocativa l’orrore dell’11 settembre 2001. Theo si sente
colpevole di quella morte, come anche una coetanea, Pippa, si sente colpevole
della scomparsa dello zio, deceduto per
gli stessi accadimenti. Le due storie si intersecheranno e si intrecceranno e
coinvolgeranno anche Boris, un ragazzo tossico ed alcolista. La ragnatela ingloberà
anche la placida vita di un antiquario, Hobie, dolce e onesto, lavoratore e
appassionato, instancabile nell’amore e nella perseveranza nell’aiutare Theo,
oltre la famiglia Barbour, devastata dalla pazzia e, ineluttabilmente, dalla
morte.
Le
loro esistenze prenderanno implacabilmente consistenza, vita, corpo, densità,
anima, per tutte le 892 pagine del romanzo.
E poi c’è il dipinto, la cui presenza nella
trama è la ragione stessa del libro: “Il Cardellino”, del pittore olandese
Carel Fabritius - morto a causa di un incendio lo stesso anno della creazione del quadro, nel 1654 - attualmente esposto al Mauritshuis nella città
dell’Aia. Nella mente di Donna Tartt
tutto nasce con la tragica fine del
pittore fiammingo (il migliore fra gli allievi di Rembrandt), del quale molte opere andarono irrimediabilmente perdute:
Il Cardellino sopravvisse nella sua
minuta dimensione e nella sua grande magnificenza. Anche la madre di Theo muore
per un evento terribile per mano dei terroristi e il fil rouge di tutta la narrazione sarà proprio questa minuscola tela:
“Perché fra la “realtà” da un lato, e il
punto in cui la mente va a sbattere contro la realtà, esiste uno spazio
sottile, uno spicchio d’arcobaleno da cui origina la bellezza, il punto in cui
due superfici molto diverse tra loro si mescolano e si confondo per procurare
ciò che la vita non ci da: e questo è lo spazio in cui tutta l’arte prende
forma e tutta la magia………Ed è per questo che ho scelto di scrivere queste
pagine così come le ho scritte. Perché solo entrando nello spazio intermedio,
nel confine policromo tra verità e non verità, essere qui a scrivere tutto ciò
diventa tollerabile.”.
Fabrizio Giulimondi
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