Romanzo
impegnativo e carico dello splendore che solo menti conturbate possono dare, “I ragazzi Burgess” (Fazi Editore) della Autrice
statunitense Elizabeth Strout (Premio
Pulitzer 2009; Premio Bancarella 2010; Premio Mondello 2012) è un amabile e
struggente piccolo trattato di psicologia, psichiatria e sociologia, avvolto in
uno stile scorrevole ed elegante.
Non
v’è personaggio che non sia sezionato in ogni angolo della sua personalità,
penetrato senza reticenze negli anfratti remoti e dimenticati dell’anima umana.
Due
fratelli ed una sorella, uniti e dispersi da una tragedia che li accomuna sin
da piccoli, di cui uno dei tre è responsabile. Un nipote abbandonato a se
stesso che ha necessità di fare una “bravata” per compiacere un padre che lo ha
abbandonato e vive lontano, in Svezia, ben lontano dal Maine.
La
bravata gli può costare caro, molto caro.
Uno
stralcio della apparente bellezza della società americana che nasconde una
vivida ferocia e una perfida e onnipresente ipocrisia, uno strisciante e mai dissipato
razzismo.
Un’opera
in cui protagonisti odiosi e splendidi, delicati e spietati, per ostacolare la
loro lenta assimilazione nella società in cui vivono, sono in eterna e
disperata ricerca di pace, stabilità, radici, in quella comunità che ha il
sapore della famiglia.
“Ma Bob non era più giovane, e sapeva
cosa significasse aver subito una perdita. Conosceva la calma che subentrava,
la forza accecante del panico, e sapeva anche che ogni perdita portava con sé un
bizzarro, a mala pena consapevole, senso di liberazione… Ma la maggior parte
aveva lo sguardo fisso nel vuoto, proprio come Bob, che era commosso dall’unicità
e dal mistero di ogni singola persona che vedeva”.
Fabrizio Giulimondi
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