Gli
Scrittori ispanici sono decisamente di grande valenza e il basco Fernando Aramburu conferma questa
tradizione letteraria con una concatenazione di libri che hanno conquistato un
sempre maggior pubblico.
La sua
ultima fatica, “Patria” (Ugo Guanda Editore) - Premio Strega Europeo 2018, Premio della Critica 2017 - è uno di quei
romanzi che lascia il segno nell’intelletto e nell’anima di chi ha avuto la
fortuna di assaporarne la narrazione, il contenuto, lo stile.
“Patria” è la Terra dei Padri.
Parola magica, di significato anche sacrale, che, però, può essere lordata di sangue,
molto sangue.
“Patria” racconta, attraverso
due famiglie, del terrorismo basco e dell’ETA con la sue strategie di morte.
E’
proprio la famiglia, anzi, le famiglie, al centro della lunga e avviluppante
trama, non la guerriglia in sé e per sé. Forse neanche la famiglia, anzi, le
famiglie, costituiscono il baricentro della storia ma i loro singoli componenti.
Le donne, gli uomini, i membri di quella, anzi, di quelle famiglie, sono i
veri, incontrastati, autentici protagonisti di una storia disseminata di sviscerata
e vivisezionata umanità. Ogni capitolo entra nelle famiglie, famiglie mai evocate
per cognome ma soltanto tramite i nomi di battesimo dei suoi appartenenti: in ogni
capitolo il lettore è accompagnato a conoscere con tattica delicatezza proprio
i membri dei due nuclei familiari.
Due famiglie
speculari e amiche che l’odio ideologico rende l’una passivamente vittima del
virulento e incomprensibile odio materno e filiale dell’altra.
Due
donne, piccole, provinciali, orgogliose, impettite, anche se una delle due paleserà
una ben più miserabile piccolezza, provincialità e orgoglio dell’altra, una
cupa e becera carognaggine di cui l’antica amica è priva.
Due
mariti, da sempre legati, uno ammazzato dal figlio dell’altro: la viltà domina
sull’amicizia anche se quest’ultima avrà l’ultima parola.
Ragazzi,
ragazze, figli e figlie di quelle famiglie improvvisamente contrapposte nonostante
siano amiche: nemiche per necessità, nemiche per costrizione.
L’odio
tutto permea, tutto annerisce, tutto inacidisce, tutto cancella. L’odio, però,
è dimentico che la spinta distruttiva che dentro di sè riposa conduce
fatalmente il rancore alla propria autodemolizione, sospingendo le persone al
perdono.
Ogni
accadimento è visto dai diversi angoli prospettici degli attori che al suo
interno si muovono, agiscono ed interagiscono. Ogni fatto è diversamente
narrato a seconda di chi lo vive. Ogni
trancio di vita ha una diversa lettura a seconda di chi lo racconta. Il punto
di fuga di una esperienza non è soltanto uno ma molteplici, quanti sono i
satelliti umani che roteano intorno ad essa.
Parlare
di analisi introspettiva dei personaggi è riduttivo perché Aramburu li fa “possedere” direttamente dal lettore che se li vede
costruire dinnanzi rigo in rigo, pagina in pagina, sino ad un sfuggente
abbraccio nel tramonto dell’opera.
Questo
libro è un atto di amore per quei troppi volti di esseri umani consegnati all’oblio
perché spagnoli e baschi avversi alla brutale violenza dell’ETA. E’ un volume
che disvela l’oceanico dolore di moltitudini di familiari costretti al silenzio
dalla tirannide dell’ETA. E’ un lavoro che rimuove l’asfissiante obnubilamento
di crimini su cui non si poteva più tacere: “Ma ho scritto anche, partendo dall’impulso di offrire qualcosa di
positivo ai miei simili, a favore della letteratura e dell’arte, quindi a
favore di ciò che di buono e di nobile l’essere umano alberga. E a favore della
dignità delle vittime dell’ETA nella loro umanità individuale, non come
semplici numeri di una statistica in cui si perdono i nomi di ciascuna, i loro
volti concreti e le loro irriducibili caratteristiche personali”.
E’ letteratura
sul pentimento, sul rimorso, sul tempo che macera e scarnifica il cuore di un criminale
che vede, come un novello Innominato, i propri delitti e, insieme ad essi, le
proprie mani insanguinate e, attraverso queste, un’alternativa al male, al
dolore, all’ inutile sofferenza provocati: “Il
tempo, di colpo, scorreva all’indietro a gran velocità. Il tempo era un film
che mostrava la sua vita al contrario. Rapidamente uscì dal carcere ed entrò in
un altro carcere e poi in un altro, fu maltrattato, poi arrestato, tornò alla
lotta armata, al pomeriggio di pioggia in cui il Txato lo aveva guardato negli
occhi, al pub dove la prima volta aveva sparato a un uomo, alla Francia, al paese,
e arrivato ai suoi diciannove anni le veloci immagini mentali si bloccarono di
colpo. Allora immaginò un destino differente che culminava nel grande sogno
della sua vita, essere ingaggiato dalla squadra di pallamano del FC Barcellona.”.
E che
la consegna delle armi dei terroristi baschi avvenuta lo scorso aprile sia l’inizio
di una nuova epoca.
Fabrizio Giulimondi
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