“Green Book” di Peter Farrelly, vincitore immeritato e “inspiegabile” del "Premio
Oscar 2019 come Miglior Film", segue una narrazione scontata e esangue su temi
triti e ritriti trattati da altri Autori con ben altro spessore artistico, valenza
contenutistica e linguaggio interpretativo ed emozionale, come “7 anni schiavo”,
“Amistad” e “The Butler. Un maggiordomo alla Casa Bianca”.
I “Quasi
amici” sono l’uno all’opposto dell’altro (ovviamente): l’uno (Don Shirley,
musicista realmente esistito e interpretato da Mahershala Ali) siede su una
poltrona dorata, fisica e metaforica, raffinato, colto, virtuoso pianista
classico, nero e omosessuale negli States degli anni ’60; l’altro (Tony Lip, anch’egli vissuto
veramente, il cui ruolo è ricoperto da Viggo
Mortensen), italiano, inevitabilmente con la pancia, mangia-spaghetti,
parlata siciliana alla “Il Padrino”
(sembra di sentir parlare Al Pacino), avvezzo alla corruzione e a menar
le mani, rozzo.
L’impressione
che si ha è che, mentre è esplicita (e giusta) la condanna all’atteggiamento
razzistico nei confronti di Don Shirley, sembra che Tony Lip incarni, invece, l’ autentica concezione che molti americani
(incluso Peter Farrelly) abbiano (tutt’ora) degli italiani, visto che nella
prodiga produzione cinematografica statunitense l’idioma dei personaggi
nostrani è cadenzato sempre dalla calata dialettale siciliana, ognuno di loro caratterizzato
per la pochezza caratteriale e per la facilità al crimine, alla violenza e alla
corruttela.
Il finale
è noiosamente scontato, nonostante mi aspettassi uno scatto di orgoglio e di
brio da parte del Regista. I due, nel giro di poche settimane, assorbiranno le
parti migliori della personalità dell’altro: l’italiano passerà dallo gettare
nel pattume i bicchieri dove hanno bevuto due persone nere a ritenerle (e meno
male!) par sue (nel giro di poche settimane!), oltre ad imparere a scrivere appassionate
lettere di amore alla moglie (la brava Linda
Cardellini); Don Shirley, dal canto suo, scenderà dal piedistallo, mangerà anche
lui pollo fritto e suonerà la musica” della sua gente”.
“Green Book” è il regno dello stereotipo
e del banale, di un becero pregiudizio mal raccontato, del linguaggio “politicamente
corretto”, ridicolmente “politicamente corretto”, che tiranneggia se stesso a
tal punto da riuscire a non rispettare nemmeno il gergo autentico degli anni
del bieco odio razziale del “Profondo Sud” (secondo Voi usavano la locuzione “persone
di colore” o “nigger”?): forse anche il
grigiore assume un vigore estetico.
Ps: “Green
Book” era l’osceno libello che riportava i locali, i ristoranti, gli alberghi e
tutti i luoghi di divertimento, museali e di cultura che potevano essere
frequentati dalla Black people
Fabrizio Giulimondi