Nel 1983 uscì un capolavoro-cult
autenticamente horror di Stephen KIng "Pet
Sematary". Quando lo lessi mi piacque molto e mi spaventò. Mary
Lambert si cimentò nel 1989 nella sua realizzazione cinematografica con
"Cimitero vivente".
Ora, nel 2019, Kevin Kölsch ha
partorito una ottima pellicola paurosa con l'omonimo titolo del romanzo del
genio statunitense.
"Pet Sematary" non è un errore di digitazione o ignoranza della lingua. Sematary
e non Cematary perché è in questo modo che i ragazzini del racconto indicano il
luogo dove vanno a seppellire i loro amati animali domestici.
La storia è carica di brivido,
suspense, attesa, terrore, una storia che si distanzia in alcuni punti dalla
trama originaria dettata da King, forse per motivi attoriali (poi capirete).
Come è inevitabile, il libro ha sempre una struttura narrante più elevata
rispetto al suo sviluppo cineastico. Come dice Ammanniti, ognuno di noi mentre
legge si costruisce un proprio film che provoca una fatale delusione quando non
lo vede realizzato da altri sul Grande Schermo.
Una famiglia che se ne va da Boston. Lui
è medico e lei casalinga. Due figli: una bambina e un bimbo più piccolo. Il
ricordo di una zia con la schiena contorta oscenamente raggomitolata sul letto.
Gatto. Villetta. Campagna. Un cimitero di bestioline prevalentemente morte
investite dai grossi camion che sfrecciano lungo la vicina statale. Non solo i pet muoiono lì. Bambini che con maschere inquietanti fanno i
funerali ai loro perduti amici. E poi v'è un'area, più in là, oltre il piccolo
fanciullesco cimitero, ricoperta da una terra strana, immersa in suoni che
sembrano di uccelli, ma non lo sono.
Ritmo elevato, che non demorde,
insistente, incupito da sonorità amorfe elettroniche. Il muro non va abbattuto.
La morte è più dolce.
Fabrizio Giulimondi
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