“Il tunnel” di Abraham B. Yehoshua (Einaudi)
è un intreccio di metafore ed allegorie che si fondono in un nodo
inestricabile. “Il tunnel” è il
deserto di Negev che si va ad affacciare nel deserto di un lobo frontale avvolto
nelle nebbie, è l’atrofia di un cervello che guarda un tunnel che deve
penetrare una collinetta sabbiosa carica di storia nabatea. “Il tunnel” è un viaggio dal settentrione
al meridione di Israele e un viaggio lungo la demenza, dalla sua scoperta alla
sua esplosione. Il viaggio è l’architrave della narrazione, un viaggio che percorre
autostrade e dune, ma, soprattutto, tunnel, tunnel visibili e tunnel
invisibili, intangibili, nascosti, tunnel fatti di cemento e mattoni e tunnel
eterei come quelli che attraversa l’anima. È un viaggio vissuto da un eccellente
ingegnere nella propria perdita di coscienza dove la scenografia è composta
dall’amore familiare, filiale, coniugale. È una storia albeggiante e
crepuscolare che vede Luria, la sua famiglia, i suoi ex colleghi e i parenti di
vetusti collaboratori espandersi proiettati verso l’esterno, per poi essere
interiorizzati dall’Autore che consegna al lettore il compito di rielaborarli e
rivisitarli.
Yehoshua ha uno stile morbido,
caldo, delicato, pacato, dai colori tenui, lievemente chiaroscuri, avvolgente,
come un tramonto sulla distesa desertica della Giudea, ove descrizioni ambientali
e naturalistiche si sciolgono in quelle intimistiche ed introspettive: “Una sottile falce di luna spuntata a
oriente, incalzata da uno sciame di stelle, solca il cielo terso”.
E la
parola si fa incanto.
Fabrizio
Giulimondi
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