Alla
corposa produzione cinematografica sulla questione razziale negli Stati Uniti, in
merito al sistema giudiziario americano che porta alla condanna molti neri solo
per il colore della pelle e relativa alla pena di morte e alla “vecchia
scintillante” che uccide crudelmente colpevoli e innocenti (1 su 9), in questi
giorni si è aggiunto un ulteriore tassello cineastico: “Il diritto di opporsi” (che riprende il titolo “Il diritto di
contare” di Theodore Melfi) di Destin
Daniel Cretton.
La
storia lascia sgomenti anche perché è ambientata nell’Alabama (storicamente
razzista) fra il 1987 e il 1992, quindi in tempi relativamente recenti.
La
trama è vera e narra di un giovane black
uscito da Harvard, Bryan Stevenson - con una inevitabile brillante carriera
dinanzi - che, invece, impegna il proprio tempo – con tutti i rischi del caso –
ad aiutare legalmente i disperati gettati nel braccio della morte anche solo
per ragioni lombrosiane.
La
battaglia dell’avvocato Stevenson (l’abilissimo Michael B. Jordan) nelle aule di (in)giustizia a stelle e strisce per
dimostrare la palese innocenza di Walter McMillian, interpretato dal grande Jamie Foxx (ve lo ricordate protagonista
in “Django Unchained” di Quentin Tarantino?), fa alzare abbondantemente le transaminasi
allo spettatore.
L’approccio
filmico del regista ricorda “Amistad” di Steven Spielberg quando i
coprotagonisti siedono dinanzi alla Corte Suprema dell’Alabama e “Dead Man
Walking” di Tim Robbins nello sviluppo scenico del tragitto dalla cella al
luogo della esecuzione, senza tralasciare “Selma – la strada per la liberta” di
Ava DuVernay e “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh.
Pellicola
didattica e didascalica, “Il diritto di
opporsi entra nella sanguinolenta carne viva della (persistente) tragedia della
discriminazione negli States senza sbavature
né eccessi: il garbo va a braccetto con la “banalità del Male”.
Fabrizio Giulimondi
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