E’ giunto il tempo di recensire il quarantaquattresimo lavoro del più
grande regista di tutti i tempi, il gigante del cinema mondiale Steven
Spielberg.
Lo statunitense Spielberg in veste di registra (44 film), sceneggiatore
(12 film) e produttore (72 film) ha realizzato in maniera potente opere che
hanno attraversato qualunque genere cinematografico, dalla fantascienza, all’horror, all’avventura, al drammatico, ai
comics, allo storico, alla commedia e
alla fiction.
Le serie da lui dirette sul piccolo schermo hanno trionfato a livello
planetario: basti pensare a Colombo ed
a E R
medici in prima linea.
I suoi film sono fra i più visti al mondo e pellicole come ET l’extraterrestre, Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Jurassic Park, Amistad, Schindler’s list,
Salvate il soldato Ryan, Il colore viola, Poltergeist - demoniache
presenze, Il principe d’Egitto, la saga di Indiana Jones sono senza discussione alcuna all’interno delle venti
più viste fra tutte quelle prodotte dalla invenzione del cinematografo ad oggi.
Steven Spielberg è vincitore di numerosi e prestigiosi premi
internazionali a partire dalla plurima assegnazione di Oscar, a dodici dei
quali (nomination) Lincoln
è candidato.
L’opera in commento, nelle due ore e trenta minuti di narrazione tinte
di grigio-scuro, ripercorre in maniera minuziosa, dettagliata e didascalica il secondo
mandato presidenziale del sedicesimo Presidente degli Stati Uniti d’America e
primo appartenente al Partito Repubblicano, Abraham Lincoln, nato il 12
febbraio 1809 e morto assassinato il 15 aprile 1865, unitamente all’ultimo periodo della guerra di secessione (detta anche guerra civile americana), dichiarata il 12 aprile 1861 e terminata il 9 aprile
1865.
Il conflitto si determinò ad opera degli unionisti (gli Stati del Nord, ad elevata
industrializzazione, favorevoli alla
abolizione della schiavitù delle popolazioni nere africane) avverso gli undici
Stati del Sud (Stati Confederati d’America, prevalentemente agricoli, dediti
allo schiavismo) che avevano dichiarato la propria secessione dai primi in
risposta alla elezione di Lincoln
come Presidente degli Stati Uniti
d’America.
Invero, questo film potremmo ritenerlo correttamente il seguito di Amistad, girato nel 1997, che
ne anticipa il contenuto nella arringa che Anthony Hopkins - interprete di John Quincy Adams, avvocato
del gruppo di schiavi ammutinati sulla nave Amistad dopo vessazioni, violenze e
ignominie di ogni tipo - tiene innanzi la Corte Suprema degli
Stati Uniti: “Se il prezzo da pagare per
l’abolizione della schiavitù sarà una nuova guerra civile, ebbene che venga!
Sarà l’ultima guerra della rivoluzione americana! Altrimenti possiamo prendere
la nostra dichiarazione dei diritti e…” e strappa lentamente e vistosamente
le carte che aveva in mano.
Lo stesso avvio del film Lincoln fatto di ferro, fuoco e
sangue, ritraente una delle tante
battaglie della guerra civile americana, che contò 600.000 vittime, rimanda alle
terrifiche scene iniziali di Salvate
il soldato Ryan, la cui estrema
crudezza e realità impegnano lo spettatore per circa venti minuti nella mirabile
riproduzione del D Day dello sbarco
il Normandia il 6 giugno 1944.
Le linee direttrici di “Lincoln”
richiamano alla memoria anche Il colore viola sul tema dell’apartheid
in Sudafrica e la possanza delle immagini senza precedenti
di Schindler’s
list sulla shoah.
Il film si concentra segnatamente sullo sforzo – poi riuscito – di Lincoln di
far approvare alla Camera dei Rappresentanti il XIII emendamento alla
Costituzione, teso alla abolizione definitiva della schiavitù su tutto il
territorio nazionale. Il tentativo è quello di farlo votare prima che si
concluda la guerra, che stava volgendo chiaramente a favore degli Stati
unionisti.
Spielberg fa comprendere all’attento spettatore le ragioni:
in Lincoln v’era il fondato timore che
una volta vinta la guerra, cessasse la tensione morale sottesa ad essa, con il conseguente
rischio che l’iter legislativo di approvazione della disposizione di abrogazione
della riduzione in schiavitù si impantanasse, attesa anche la necessità di
imporre una normativa abolizionista, già
esaminata positivamente dal Congresso, agli sconfitti Paesi schiavisti del Sud.
L’obiettivo è arduo e Lincoln dimostra di essere un politico
abile che non bada ad utilizzare qualsivoglia
mezzo – incluso la offerta di prebende e prestigiosi incarichi pubblici – pur di portare su tesi abolizioniste alcuni riottosi deputati
del suo partito e parte dei democratici, favorevoli in realtà al mantenimento, seppur in forma più umana, della schiavitù. Il
risultato da attingere ad ogni costo è la maggioranza dei due terzi dei
componenti della House of Representatives:
tutti i membri del gruppo parlamentare dei repubblicani ed alcuni di quello
democratico debbono pronunziare il fatidico sì
al momento della votazione della modifica costituzionale.
Il Senato aveva già approvato l'emendamento aggiuntivo alla Costituzione
(XIII emendamento) l'8 aprile 1864,
con 36 voti a favore e 6 contrari. Però,
una volta che il suo scrutinio
passò all’altro ramo del Congresso, sorsero i problemi, con il suo respingimento da parte
dell’Aula.
Solamente a seguito della sua
riproposizione, sotto l’attenta supervisione del Presidente Lincoln e
l’utilizzo da parte di questi dei cennati trucchetti
e arguzie, il 31 gennaio 1865, dopo una battaglia infuocata con momenti di alta
tensione fra appartenenti alle wright e left wings e in seno, persino, alle
medesime, la Camera approvò il testo con 119 voti a favore e 56 contrari: la
schiavitù era definitivamente abolita!
Manca però un ultimo passaggio: la ratifica del testo da parte degli Stati.
Con apparente pacatezza e visibile determinazione
Lincoln - mirabilmente incarnato da Daniel Day-Lewis, che ne esprime anche nelle pieghe più intime
le profonde concezioni umane e
cristiane, sino a far sentire alla platea l’amore che il popolo americano
nutriva per lui - nel ricevere la delegazione degli Sati secessionisti
del Sud che vengono a trattare la resa, fa capire loro senza giri di parole che
la Storia si è
compiuta e l’umanità non può tornare più indietro: capitolazione immediata
degli eserciti sudisti e repentina riammissione a pieno titolo nel tessuto
ordinamentale degli Stati Uniti d’America di quelli secessionisti, previa ineludibile accettazione della abolizione della schiavitù
e, pertanto, promovimento della ratifica della proposta emendativa da parte
anche dei loro governi territoriali.
Il Segretario
di Stato
William H. Seward formalizzò l'avvenuta
ratifica il 18
dicembre 1865 del XIII emendamento che recita in siffatta maniera: ” Sezione I: La
schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse
negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non
come punizione di un reato per il quale l'imputato sia stato dichiarato
colpevole con la dovuta procedura.
Sezione II: II Congresso ha facoltà di porre in essere la legislazione opportuna per dare esecuzione a questo Articolo. “
Sezione II: II Congresso ha facoltà di porre in essere la legislazione opportuna per dare esecuzione a questo Articolo. “
Verso la conclusione della proiezione,
durante la commossa lettura di queste poche ma copernicane righe, mi sono
riecheggiate le parole di Abraham
Lincoln e di Martin Luther King.
«…..Or
sono sedici lustri e sette anni che i nostri avi costruirono su questo
continente una nuova nazione, concepita nella Libertà e votata al principio che
tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande
guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione, così
concepita e così votata, possa a lungo perdurare”….
e ancora Lincoln, sempre il 19 novembre 1863, alla cerimonia di inaugurazione del cimitero
militare di Gettysburg (oggi il Gettysburg National Cemetary):“… che noi qui solennemente si prometta che
questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia
una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per
il popolo, non abbia a perire dalla terra. “
E potente è l’invocazione
che il reverendo Marthin Luther King il 28
dicembre 1963 lanciò durante la marcia per il lavoro e la libertà davanti al
Lincoln Memorial di Washington: “….E quando lasciamo risuonare la libertà,
quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni
stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di
Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire
le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: ‘Liberi finalmente,
liberi finalmente, grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente!’.”.
Fabrizio Giulimondi
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