Stoner
dello scrittore texano John Williams
(Fazi editore) è un libro bello e struggente, molto bello e molto struggente.
E’ un romanzo intimistico e introspettivo,
ambientato nella prima metà del ‘900 a Columbia, capitale del South Caroline.
E’ un capolavoro dalle splendide
descrizioni, attente e minuziose, delle persone, delle loro movenze e del loro
mondo interiore, degli oggetti e dei luoghi.
E’ l’opera letteraria la cui
ossatura è la tristezza, la lirica della tristezza.
William Stoner, contadino da fanciullo, studioso di
letteratura anglo-americana da ragazzo e, poi, per quarata anni, immutabile ricercatore presso l’università, è
avviluppato dalla tristezza. Neanche la sua passione per i libri fuoriesce
nelle sue aride lezioni, costellate da
parole dure come pietre (pietra in inglese stone,
non un caso il cognome Stoner), pronunziate durante le pedanti spiegazioni.
Stoner è martirizzato nella
vita privata dalla moglie Edith, figura tragica, costantemente in bilico fra
fragilità caratteriale e patologia psichica e, nella vita professionale, dal direttore
del suo dipartimento accademico, le cui angherie punteggiano tutta la storia.
La figlia Grace, così amata
dal protagonista ma da lui medesimo in realtà abbandonata a sé stessa,
scivolerà lentamente ma inesorabilmente verso l’alcolismo.
Stoner conoscerà uno sprazzo
di felicità con l’amante Katherine, giovane neo laureata che muove i primi
passi lavorativi nel campo dell’insegnamento presso l’ateneo di Columbia: “ Siamo stati felici, vero?....”Eravamo
felici, più felici di chiunque altro. Fino all’inevitabile futuro….e contemplò
con incommensurabile tristezza quel loro ultimo sforzo di sorridere che assomigliava
alla danza della vita su un corpo morto.”
Alla gioia è concesso poco
tempo e la tristezza e il dramma prenderà fatalmente e definitivamente possesso
del racconto, fino alla morte di Stoner: le parole da egli spese nel parlare
degli ultimi istanti della sua esistenza sono di rara e commovente bellezza.
Peter Cameron nella
postfazione afferma: ”E la verità è che si possono scrivere dei pessimi
romanzi su delle vite emozionanti e che la vita più silenziosa, se esaminata
con affetto, compassione e grande cura, può fruttare una straordinaria messe
letteraria. E’ il caso che abbiamo davanti.”.
Ultime due annotazioni.
L’uso dei vocaboli è
affascinante: l’Autore ama molto il verbo baluginare
e l’aggettivo feroce, reiteratamente adoperati nel corso della scrittura, al pari dell’utilizzo
di espressioni configurate in lingua italiana dalla fusione di più parole inglesi, come l’italica bovindo, ossia la finestra a loggia
sporgente, conseguente alla traduzione della combinazione dei termini anglosassoni
bow e window.
Accattivanti i richiami alle
vicende storiche che coinvolsero gli Stati Uniti durante la prima e seconda
guerra mondiale, oltre i riferimenti approfonditi e puntuali alla letteratura
britannica e nordamericana.
Fabrizio
Giulimondi.
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