mercoledì 16 gennaio 2013

MO YAN, PREMIO NOBEL 2012 PER LA LETTERATURA: "LE SEI REINCARNAZIONI DI XIMEN NAO"


Le sei reincarnazioni di Ximen Nao

Mo Yan (il cui significato è riconducibile a “non parlare”), pseudonimo dello scrittore e sceneggiatore Guan Moye, è nato in Cina, nella provincia dello Shandong, da una famiglia di contadini, il 17 febbraio 1955. Per molti anni ha lavorato al dipartimento culturale delle forze armate della Repubblica Popolare. Ha scritto numerose opere narrative, fra cui i romanzi, i racconti  e le novelle di maggior pregio sono Sorgo Rosso (1997), L’uomo che allevava i gatti (1997), Grande seno, fianchi larghi (2002) e Il supplizio del legno di sandalo (2005). Nello stesso anno ha vinto il premio  Nonino per la letteratura internazionale.
Nel 2012 gli è stato assegnato il Nobel per la letteratura.
Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (Einaudi editore), è un lavoro corposo formato da 730 pagine, cinque parti e cinquantotto capitoli, che immerge il lettore per tutta la durata del libro in un mondo fisico e metafisico molto più distante delle reali latitudini spaziali e lontananze temporali.
Primo gennaio del 1950: Ximen Nao, un ricco proprietario terriero, è stato giustiziato dai suoi mezzadri alla vigilia della rivoluzione comunista cinese condotta da Mao Zetong (26 dicembre 1893 - 9 settembre 1976). Da due anni vive nel mondo delle tenebre. Sebbene subisca i più dolorosi e crudeli supplizi, rifiuta di pentirsi: è convinto di avere avuto una vita giusta e di essere stato immeritatamente condannato. Re Yama, il terrifico signore della morte, stufo di lui,  gli conferisce la possibilità di reincarnarsi nei luoghi ove ha vissuto la sua vita terrena. Ximen Nao crede di poter riprendere possesso della moglie, delle due concubine, della terra e degli altri suoi averi. In realtà il suo corpo rinascerà animale e prenderà le sembianze, nell'arco di cinquanta anni, di un asino, di un toro, di un maiale, di un cane e, infine, di una scimmia.
Seppur collocato ad un livello inferiore della gerarchia delle forme di vita in seno alla natura, Ximen Nao mantiene un ruolo di protagonista e di “capo” nelle sue diversificate vestigia animali, non cessando mai di essere l’unico e il vero dominus del romanzo.
Al momento di congedarsi dagli inferi e di tornare nel nostro mondo, Ximen Nao si rifiuta di bere una pozione che gli consentirebbe di dimenticare il passato e di liberarsi progressivamente delle pulsioni umane, del desiderio, dell’odio, della sete di vendetta: vuole che  le esperienze avute come  essere umano rimangano saldamente impresse nella sua memoria di bestia.
Giungerà il momento in cui re Yama  consentirà a lui di riassumere l’aspetto di uomo: il 31 dicembre del 2000, la notte che vedrà la nascita del nuovo millennio, nascerà un bambino di nome Lan Qiansui (translitterato: Lan mille anni), con un corpo piccolo e magro e la testa insolitamente grande, una memoria eccellente e una parlantina sciolta. È il “bambino dalla testa grossa” che il giorno del suo quinto compleanno incomincerà la narrazione della propria esistenza dal primo gennaio 1950.
Lan Qiansui è la sesta e ultima reincarnazione di Ximen Nao: il cammino di liberazione dal fardello del rancore è stato completato e re Yama ha consentito che egli riacquistasse fattezze umane.
Il racconto  è di grande effetto e pieno di spunti di notevole interesse intellettuale.
Ogni pagina è pregna di detti e adagi popolari, leggende, concezioni filosofiche ed esistenziali orientali, di motti, proverbi e saggezza cinese, di usanze matrimoniali e funerarie e consuetudini locali, di credenze mediche e pratiche farmacologiche, di principi buddisti e pensieri confuciani, di teorie marxiste-leniniste ed interpretazioni ideologiche maoiste,  di costumi sociali e storie di vita rurale quotidiana, di descrizioni della struttura economica socialista e dell’ordinamento verticistico del partito comunista cinese a livello centrale  e periferico.
Ogni pagina palesa l’opulenza dei gerarchi di partito rispetto alle misere prospettive delle miriadi di agricoltori, allevatori ed operai, obbligatoriamente astretti fra di loro in comuni e alle loro anonime ed umili abitazioni tutte eguali, con il mobilio marcescente e l’aria di cui il lettore ne respira  chiaramente la polverosità.
Ogni pagina dipinge la campagna similmente ad una pittura facendone sentire l’intensità dei profumi. Da ognuna di esse trapelano cultura, tradizioni e mentalità contadina e filtrano gli effluvi delle frittelle cucinate nelle strade e l’afrore delle case, il ticchettio delle scarpette folcloristiche femminili dell’estremo oriente, il tamburellare secco degli zoccoli agresti maschili, il clangore, la confusione e l’inquinamento dei grandi centri urbani, dove si muovono disordinatamente masse di persone come pulviscolo nel vento. L’odore delle eroine del romanzo  si propaga, facendo  immaginare il  loro  modo di vestire e la particolarità dell’acconciatura dei capelli; parimenti affascinante è il trattamento che ogni pagina riserva agli uomini, abbondantemente descritti nella loro fisicità e nella loro maniera di fare, di comportarsi e di manifestare le proprie abitudini, ponendoli a confronto con l’altra metà del cielo.
Il sottofondo di ogni pagina è la nenia provocata dagli strumenti musicali tipici e di antica fattura, con sonorità talora tediose, mentre le medesime pagine  scandagliano la famosa ars culinaria con gli occhi a mandorla che trasforma in pietanza qualsivoglia vivente, bipede o quadrupede che sia, eccettuati ovviamente gli ominidi.
Ogni pagina è ricca della geografia dei luoghi, generosa nella rappresentazione della  flora che adorna i paesaggi del Paese dei fiori di loto  con un variopinto florilegio di piante, boccioli e corolle, sempre attenta ad ogni genere di animale e ai molteplici aspetti faunistici, non disattendendo le metodologie di coltivazione degli appezzamenti di terreno e le tecniche di allevamento del bestiame.
Ogni pagina esalta teneri rapporti familiari e coniugali e forti vincoli solidaristici familiari.
Numerosi sono i riferimenti ad opere letterarie, teatrali e  cinematografiche dell’epoca rivoluzionaria, inclusi i continui richiami (finzioni artistiche? stratagemmi? artifizi letterari?) agli  scritti -  di cui vengono riportati interi brani - dello stesso Mo Yan, che assume nella storia le vesti di un  onnipresente personaggio, con caratteristiche professionali (e umane?) identiche allo stesso Autore, un po’ antipatico, primo della classe e pedante.
Non solo: anche la grande letteratura russa viene presa in esame, come quella rappresentata da Il placido Don di Michail Solochov, attraverso il quale il Premio Nobel descrive potentemente lo strazio dell’innamorato che perde all’improvviso la propria  amata.
L’approccio favolistico ricorda Erodoto, la visuale è fantasiosa e l’ottica visionaria  fa pendant con i grandi cineasti cinesi e giapponesi. Lunghi periodi legano scene ivi descritte di particolare intensità erotica ad alcune immagini della pellicola L’impero dei sensi del recentemente scomparso regista giapponese Nagisa Oshima, immagini  che appaiono fugacemente in chi legge come sprazzi, quasi subliminari, di ricordi.
Viene ripercorsa la storia della Cina - con il supporto di chiare note esplicative  a piè di pagina e di minute sintesi nel prologo di ogni capitolo -  dalle prime dinastie antecedenti alla nascita di  Cristo; alle due guerre cino-giapponesi (1894-1895; 1937-1945); all’era comunista maoista, sorta con la sconfitta nel 1949 a Nanchino ad opera dell’esercito di liberazione popolare guidato da Mao delle milizie condotte da Chiang  Kai-shek, leader del Partito Nazionalista del Kuomintang, diventato poi il movimento di maggioranza che ha governato per anni Formosa (oggi Repubblica di Cina su Taiwan); alla guerra di Corea (1950-1953) e  alla rivoluzione culturale (1967-1969), al termine della quale ha trionfato la tradizione ortodossa maoista su quella maggiormente “riformista” di Deng Xiaping, nuovo segretario del partito comunista cinese nel 1978, dopo il breve interregno biennale di Hua Guofeng (1976-1978),  conseguente alla  morte di Mao il 9 settembre 1976. Il dittatore- tiranno - fatherland ha lasciato decine di milioni di morti alle sue spalle a cagione dei  laodai, i campi di lavoro e di rieducazione sorti nel 1957 su tutto il territorio nazionale (di cui in questi giorni il Governo cinese ne sta ponderando la chiusura), affini  ai Gulag sovietici e ai lager nazisti, oltre che a seguito delle scellerate e criminali politiche agricole e della forzata industrializzazione realizzata manu militari. Mo Yan, degli orrori di quella stagione,  ne parla in penombra, soffusamente, velatamente.
Gli ultimi capitoli si ambientano in una Cina bifronte sul piano sociale, fra modernità e feudalesimo, centaura sotto l’aspetto economico, tra capitalismo e socialismo reale, saldamente totalitaria a livello politico-governativo.
Un cupo moralismo fa da scenario alle vicende di tutti gli attori che si affacciano, anche secondariamente, nella trama, implementato, invece che ridotto, dall’avvento del sol dell’avvenire.
Il finale è delicatamente poetico, dolcemente drammatico, malinconicamente triste, reso tenuamente crepuscolare da un tramonto nascosto – se presterete attenzione -  fra le pieghe delle parole e delle righe.

Fabrizio Giulimondi

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