“Django unchained”, un altro
grande film di Quentin Tarantino, il
mostro sacro del genere splatter di
azione. Il regista americano riprende un cult
del cinema western Django, la
cui prima e bella trasposizione cinematografica fu realizzata in
Italia da Sergio Corbucci nel 1966, lungo il
filone delle pellicole sui cow boy
in salsa nostrana, di cui Sergio Leone fu l’indiscusso Maestro.
Le musiche dei film di Sergio Leone e d Sergio Corbucci sono presenti
per tutta la durata della proiezione, prorompendo al suo termine il brano che ha fatto da colonna sonora a “Lo chiamavano Trinità” e “Continuavano a chiamarlo Trinità”. Le
stesse splendide scenografie texane e del Colorado rimandano la memoria ai c.d. spaghetti western, anche se il tocco del regista
Tarantino si fa notare negli spruzzi di
sangue, nel materiale organico e
celebrale che ad ogni colpo di revolver schizza virulentemente fuori e, ancor di più, nelle scene particolarmente “forti”.
L’ambientazione storica si aggira intorno al 1858, a tre anni
dall’inizio della guerra civile americana (sulla quale mi sono soffermato
durante il commento al film “Lincoln”
di Steven Spielberg), mentre quella geografica vede coinvolti i panorami
montuosi e desertici degli Stati schiavisti del Sud.
Django (interpretato da oscar
da Jamie Foxx ), schiavo dalla pelle scura che, al pari dei “fratelli” che
vivono la sua stessa condizione, conduce una esistenza zuppa di orrore, ferocia
e brutalità, viene furbescamente liberato da un cacciatore di taglie, il dott.
King Schultz, killer professionale veloce di pistola e di favella, che sin
dall’inizio scatena nello spettatore una notevole simpatia. Django imparerà
facilmente il “mestiere”, sotto la cui “copertura” provvederà a vendicarsi degli schiavisti che avevano inflitto a lui e
alla bella moglie qualsiasi tipo di crudeltà. Ogni volta che sarà usata la colt spappolando cuore, cervello, arti e
“parti intime” delle belve sfruttatori di neri, non potrete che provarne un certo
sollievo, se non addirittura piacere.
Lo splatter in queste
occasioni appare in tutta la sua
“estetica”: in realtà il sangue che fuoriesce a profusione dai corpi attinti dalle
pallottole di Django e del dott. Schultz (mirabile Christoph Waltz!) è talmente
esagerato e sfacciato da risultare ilare!
La moglie di Django, Broomhilda,
è ritrovata asservita in maniera
animalesca ad un feroce schiavista. Il volto angelico di Leonardo Dicaprio si
trasforma nella faccia di una belva, che gode nel vedere due mandingo lottare in salotto in modo
gladiatorio fino ad una morte
sanguinolenta, sino allo strappo degli occhi, non ultimo il maciullamento del
cranio dell’uno a colpi del martello dell’altro. Il volto angelico di Leonardo Dicaprio
si trasforma nella faccia di una belva, che gode nel far evirare i "negri" o tenerli,
come imposto a Broomhilda, per giorni all’interno di una gabbia costruita completamente con materiale
ferroso sempre esposta al sole. Il luogo tirannicamente dominato dallo
schiavista- Dicaprio, ove è narrata parte della storia e la coppia di cercatori
di criminali a pagamento danno il meglio
di se, è folle e infernale insieme. Si
alternano – come se nulla fosse – violenza estrema e momenti di serena
convivialità: singoli individui ridotti
nella più miserrima schiavitù sono
destinatari prima della più brutale cattiveria e poi proiettati in scenari di
natura ludica, festa o cena che sia. Truculenza e giocosità:
la banalità del Male.
Gli ambienti da incubo e di vita di bianchi e servi si tingono improvvisamente della luce sinistra del volto dello schiavo di casa più anziano - mimeticamente interpretato da uno
straordinario Samuel L. Jackson - nel
quale promiscuamente convivono ottusità, servilismo e malvagità. Jackson riuscirà a farVi odiare il nigger - stravagante alter ego di colore del padre - padrone (Dicaprio) - assetato di metodi di tortura e di terrificanti
metodologie di morte, ribelle e lamentoso, però, quando la moglie di Django viene tolta troppo presto
per i suoi umori dalla gabbia di sofferenza, calore e ustione. Lo schiavo - patron, privo di qualsiasi pietà come il
suo dominus, è simile ai kapò
dei campi di concentramento e di sterminio nazisti, spietati al pari dei carcerieri “ariani”.
Non si può non sottolineare la presa in giro alla Mel Brooks di un gruppo di appartenenti ai cavalieri del
Ku Klux Klan, che sono fermati nel loro sanguinario raid punitivo dalla assenza di una buona visuale causata da
cappucci mal cuciti dalla consorte di
uno di loro: il tutto accompagnato a ritmo di rap.
Molto ma molto consigliato a tutti coloro che non hanno lo stomaco
debole e amano quello che i cineasti ben acculturati da adesso in poi
potrebbero definire il pulp-western.
Fabrizio Giulimondi
Detesto Tarantino.
RispondiEliminaPenso che sia la persona più in malafede del cinema mondiale.
Penso inoltre che, tutto il genere Splatter sia moralmente deviante e pericoloso nei confronti di una gioventù cui già, troppo, abbiamo minato la propensione alla Grandezza e all' Aristocrazia del Pensiero.
Evidentemente Rocco Cesareo ( a cui - mi risulta - è piaciuto molto il film del grande Tarantino) ed io siamo avversi alla Grandezza e all'Aristocrazia del Pensiero!
RispondiEliminaNon penso che Tu e Rocco amiate lo " Splatter" tout court, cui era rivolta la considerazione sulla corruzione delle menti. So per certo che amate l'Aristocrazia del Pensiero, altra ragione per cui non mi spiego come possiate amare l'opera di un essere volgare come Tarantino. Ma le debolezze dei grandi, quando sono di questa entità, ce li rendono più vicini . :-)
RispondiElimina