Dopo alcuni lungometraggi, romanzi giunti sulla soglia del Premio
Strega, pellicole apprezzate dalla
critica, film di particolare valore estetico e corposo significato contenutistico, come Il Divo (2008) e This must be the place (2011), Paolo
Sorrentino porta nelle sale italiane
La grande Bellezza, un’opera che
meritava senz’altro di ricevere (al pari di Miele,
già oggetto di commento in questa
Rubrica) premi di prestigio all’appena terminato Festival di Cannes.
L’arte del regista Sorrentino
oramai è indiscussa e non ha nulla da invidiare a quella immaginata dai grandi
autori europei e statunitensi.
Film di pregio, intenso, pieno, suggestivo e completo, a tutto tondo,
simbolico, articolato e complesso, arguto e disincantato, cinico e bonario,
intelligente e delicato, La grande
Bellezza vede un cast composto dal più importante cinema italiano, un
florilegio di nomi raramente compresenti
in maniera così massiva in un produzione cinematografica: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Francesca Neri, Roberto Harlitzka, Isabella Ferrari, Giorgio Pasotti, Vernon Dobcheff, Serena Grandi, Luca Marinelli, Giulia Di Quilio, Massimo Popolizio, Giorgia Ferrero, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Ivan Franek, Stefano Fregni.
Toni Servillo, oramai uno dei sommi interpreti del cinema italiano,
primeggia su tutti nella parte del protagonista Jep Gambardella, anche se gli
altri attori, ognuno per la propria
parte, maggiore o minore che sia,
danno quel tratto di penna, quella pennellata, quel tocco musicale, che rendono il lavoro corale grandioso e
armonico.
Jep Gambardella è uno scrittore che ha pubblicato decenni prima
dell’inizio della storia un romanzo di discreto successo.
Jep Gambardella è un giornalista di una rivista di cultura, arte e moda
di buon accreditamento e diffusione.
Jep Gambardella è, soprattutto, il signore indiscusso della mondanità notturna
romana. Da quando è giunto a Roma all’età di ventisei anni sino al compimento
del sessantacinquesimo anno di età, non ha trascorso notte senza partecipare,
ravvivare ed essere il protagonista di feste, cene, aperitivi, cocktail,
organizzati da una borghesia festaiola
quanto annoiata, imbolsita e intristita dal Nulla.
Sono il Nulla, Il Niente, il Vuoto, l’Inconsistenza, l’Insostenibile
Leggerezza dell’Essere, il tessuto connettivo, la ragione sociale, il leit motif, il canovaccio della vita di Jep e dei compari mondani.
Il prologo del film è girato proprio nella villa di Gambardella, dove si
sta svolgendo la sua festa di compleanno: per dirla con Angelo Branduardi danze,
colori e allegria, canti e rumori, suoni di risa.
La mattina dopo, però, nulla della tristezza, della malinconia,
dell’angoscia, del senso di inutilità, è
stato in alcun modo rimosso, anzi, a dir del vero, tutto si è accresciuto.
E così è ogni sera, ogni notte e, poi, ogni risveglio.
Un concatenarsi di smarrimento in una apparente ricchezza e giocosità.
E’ quella borghesia romana ingolfata in un benessere stantio e monotono,
non frutto di fatica e di lavoro, ma di rendite e di ricchezza altrui che
provengono dal passato, da altre mani,
da altri sudori.
E’ quella borghesia progressista, sempre dalla parte giusta, sempre con
le idee giuste, sempre con le parole giuste sulle labbra pronunziate nel
momento giusto.
E’ quella borghesia che ha le sue radici nel ’68 e che viene
scenicamente interpretata con efficacia da Francesca
Neri, politicamente impegnata da studentessa, dedita alla carriera e
all’indottrinamento del figlio secondo
il corretto sistema valoriale che il politicamente corretto impone a questa sterile borghesia. Jep Gamabardella con poche,
efficaci, potenti e dirompenti battute, che fuoriescono dalla sua bocca con
elegante, aristocratica, nobile ferocia, smantella la signora il cui ruolo Francesca Neri ricopre abilmente.
La storia dell’impegno politico passato e dell’attuale capacità di essere
donna e madre viene smascherata nella
sua falsità e, tramite il suo disvelamento, viene messa alla berlina la borghesia dei salotti buoni, bigia e piena di soldi, arrogante nel porsi con gli
altri, stravagantemente convinta di possedere una superiorità morale e
culturale sulle genti, ma che, invero, consuma la propria esistenza nella assenza di
valori autentici, idee vere, azioni concrete, obiettivi utili.
Jep sa questo, è cosciente che
dalla pubblicazione del suo romanzo anni prima nulla ha più costruito il suo
pur vivace ingegno, niente hanno più concepito
la sua anima, il suo cuore, il suo intelletto, offuscati da una mondanità brulla,
che gli brucia ogni serata e notata da decenni.
Jep vuole scomparire, come la giraffa (uno dei tanti elementi simbolici
della pellicola) che un amico “mago” rende evanescente nell’ambiente.
Jep vuole dissolversi oppure ricominciare. Non si darà alla fuga al pari
dell’ unico amico - raccontato da Carlo Verdone - disgustato da tanta inedia, da troppa
superficialità e inganno, di cui la “fidanzata”(Anna della Rosa) è impareggiabile maestra, infame nel comportamento
quotidiano, tatertyp della comune percezione
della moralità delle tante ragazzotte
che deambulano nottambule in ricerca del tutto
e subito perché del domani non v’è
certezza, idolatre dell’unico attuale
dogma: denaro senza fatica e privo di etica.
Fra queste dame brillano per assenza di luce negli
occhi la onnipresente a feste e cene Pamela
Villoresi e, per ovvietà negli incontri sessuali, oramai riti scontati, Isabella Ferrari. Serena Grandi, nella suo truculento disfacimento fisico, fornisce
plasticamente corporeità al vizio stratificato nel tempo.
Il personaggio interpretato da Verdone scappa disgustato e senza
speranza, Gambardella no: rimane e cerca. Cerca qualche vibrazione che possa
scuotergli cuore, riattivarli l’anima e galvanizzarne l’intelletto.
Non la trova certamente in un cardinale in predicato per il soglio
pontificio (il sempiterno straordinario Roberto Herlitzka), pervicacemente attratto dalla goliardia terrena ed
esperto dell’arte culinaria, irrimediabilmente allergico alla spiritualità:
qui, nella rappresentazione cinematografica del principe della Chiesa, Sorrentino si avvicina sensibilmente agli stilemi propri delle opere di Fellini. L’aspetto lievemente luceferino
dell’attore ben esprime l’assenza di
religiosità dentro la coscienza dell’alto prelato.
La narrazione di questo cammino è punteggiato da scene improvvise, quasi
subliminari, di suore che irrompono nella proiezione senza che tali apparizioni
fuggevoli abbiano alcun senso, raffigurate in maniera ridanciana e un po’ volgare,
quasi pasoliniana.
L’incontro con suor Anna in odore di santità traccia il confine fra un
prima e un dopo.
Suor Anna è molto anziana e il regista la raffigura fisicamente simile a
Madre Teresa di Calcutta, esasperandone però la rigidità dei movimenti,
l’avvizzimento della pelle, il raggrinzimento dei tratti mimici, atteggiandola
ad una mummia dalle fattezze somatiche incartapecorite. La suora
non parla di povertà, ma la vive. E’ questo l’aspetto dirimente che separa l’ante con il post,
lo “ieri” con il “domani”. I salotti radical chic fanno un gran parlare di
miseria ma se ne tengono ben lontani, ingozzandosi di un quotidiano superfluo,
andando a dormire mentre gli altri si alzano.
Forse per Jepi è il momento di andare, di riaccendere le passioni che
molti anni addietro lo hanno spinto a scrivere e che una Roma, incupita da
appartamenti illuminati dal baluginio della
luce artificiale, ne ha spento lo scintillio interiore, quello che
traduce le emozioni in parole, la tribolazione dei sentimenti in lettere: “Sprazzi di bellezza nel sottofondo del
chiacchiericcio giornaliero -
poeticamente declama Gambardella - mentre si è nell’imbarazzo di stare al mondo”.
L’umanità che lo ha accompagnato nel tempo, circondandolo di effimero,
rimane inalterata e il commilitone di tanta esteriorità privata della bellezza,
Carlo Buccirosso, il più pervicace
mondano delle terrazze della Capitale, non cesserà di proferire il suo Te chiavasse a qualunque femmina
intercetti nel suo percorso danzante.
Lo stormo di gru che si alza nel cielo di Roma tinto dei colori del
tramonto primaverile-estivo, dopo un lieve soffio emesso dalla bocca di suor
Anna, descrive allegoricamente l’ultima
notte di un Jep Gambardella, che vergherà di nuovo su pagine vuote da troppi
lustri nuove sensazioni, narrate alla
luce del giorno, mentre la notte lo vedrà dormiente giacere sul suo letto,
incurante della lugubre ed sempre eguale
mondanità che persisterà sulle splendide
terrazze del centro di Roma.
Ora Gepy conosce sentimenti nuovi, non attraversati necessariamente dall’obbligato
rispetto del codice del sesso, ma che si realizzano in pienezza nello scambio
di affetti fra lui e una spogliarellista
romanaccia (Sabrina Ferilli), la cui grave patologia di cui è affetta determinerà
anche un momento drammatico, rendendo La
grande Bellezza difficilmente classificabile e susumibile entro una
categoria specifica.
Gep Gambardella, ora, può aspirare alla
Grande Bellezza, che trasparirà attraverso i pori di piazza di Spagna, di
Trinità dei Monti, di piazza Navona e di via Veneto - non più teatro della sorniona dolce vita degli
anni ’60 - , occhieggerà lungo quella
linea sfocata che si intravede fra i
tetti delle Basiliche e dei monumenti romani e il cielo e lo dirigerà, finalmente e
fatalmente, verso un nuovo orizzonte.
Fabrizio Giulimondi
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