“Dio di illusioni”, opera prima di Donna Tartt (BUR Rizzoli) - di cui l’ultima fatica
letteraria “Il cardellino” è
recensita in questa stessa Rubrica - , è uno di quei romanzi che segna lo
spirito del lettore, lasciando strascichi di turbamento per giorni.
“Dio di illusioni”,
ossia la blasfemia e l’oscenità del male avviluppate in un modus scribendi eccelso, che lascia senza fiato, dove la violenza,
la amoralità e il disfacimento fisico e psichico si mischiano, si amalgamano e
si fondono con lemmi, parole, aggettivi, espressioni lessicali sublimi; la lingua
inglese si intreccia con il greco antico e con l’idioma di Virgilio e di Orazio;
la letteratura statunitense con quella
ellenica e romana.
“Dio di illusioni” è dramma
shakespeariano e tragedia della Grecia del V secolo, dove la violenza e i
richiami sessuali si intuiscono, non si appalesano, per educare e non
sconvolgere il pubblico.
Bacheia, riti
e estasi dionisiache, paganesimo e
baccanali, cinque ragazzi, una ragazza e un esimio professore universitario di
culture classiche, un college di
prestigio del Vermont, droghe, alcol, farmaci, genitori assenti o spregevoli,
un thriller che si muove su un proscenio teatrale elisabettiano e che per
seicentoventidue pagine penetra nel
lettore tenendolo avvinto impietosamente alle parti più fascinose e buie dell’animo
umano, che comprendono “non solo il male,
ma l’infinità di trucchi grazie ai quali il male si presenta come il bene…. (giungono)
al cuore delle cose, all’intrinseco marciume del mondo.”.
Fabrizio Giulimondi
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