“Riportando tutto a casa” (Einaudi) di Nicola Lagioia, da alcuni considerato un campione in pectore del romanzo italiano, è la
storia ruvida di uno sgradevole amarcord
raccontata con uno stile eccentrico e nervoso, infagottato o impreziosito da
aggettivazioni, giochi ed equilibrismi espressivi (“tra il cinguettio delle nostre chiacchierate, l’aculeo di un episodio
inconfessabile subito ricoperto dal miele a lunga conservazione di altre
banalità”…”avevo ripassato tante volte quella scena nella speranza di logorare
l’elastico del tempo, ma il tempo era l’eterna vibrazione di un elastico
nascosto”).
Il “vuoto”
è la trama della narrazione, ne è il canovaccio e il leitmotiv, ne è il fil rouge. Il
“vuoto” di figli consegnati all’ eroina dal cupio
dissolvi di genitori bramosi solo di apparire e mostrare ricchezze e lusso,
obnubilati da un parossistico, feroce e forsennato lavoro (“il bello diventato insulto, l’eccesso di
vitalità che trascolora nel delirio di impotenza, l’arroganza spumeggiante del
benessere che imbocca la strada della frustrazione”).
Il set è Bari e sullo sfondo si depositano gli
anni ’80 con i suoi Gorbacev, i suoi Reagan, i suoi Wojtyla e i suoi Mandela, con
l’arrivo della televisione commerciale e degli onnipresenti quiz e il boom della borsa e le bombe sui treni e
il Muro che crolla e la Porta di Brandeburgo che si apre ad una nuova epoca che
non porterà ad una nuova Europa, e poi “Mani Pulite”, e poi la fine: “Non si può perdere quello che non si è mai
avuto, non si ha quello che non si è mai perso”.
Fabrizio Giulimondi
Una presentazione realistica di uno spaccato anni 80 ove la modernità prende piede facendo intravedere le future macerie...
RispondiElimina