Martin McDonagh rende
palpabile l’odio, il rancore, la rabbia, un cupo, persistente, ininterrotto
desiderio di vendetta, senza pace, senza tregua, senza pelle.
“Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è un
film che per i tre quarti della sua durata non esiste compassione, non v’è mai
alcuna compartecipazione del dolore e del dramma altrui, ma solo uno scambio di
brutale energia irosa, di violenza fisica e insulto virulento fra familiari,
poliziotti e cittadinanza e gli stessi poliziotti a cui tutto è consentito. A Ebbing, Missouri, lo stupro mentre moriva di
una giovane ragazza è rimasto accantonato dagli inquirenti per troppo tempo e tre
manifesti lo fanno uscire dalle trame del silenzio, un silenzio fatto di occhi
iniettati di sangue e frustrazione.
Solo
dando un nome alle emozioni, ai sentimenti, solo dando legittimazione a questi
stati d’animo si può uscire dalle sabbie mobili della disperazione.
La pellicola,
molto dura e coinvolgente, estetizza un percorso interiore che va da un cupo risentimento
ad una presa di coscienza individuale, e poi condivisa, dell’intramontabile dolore
che si sta vivendo, della propria insanabile e acuta sofferenza, di un antico e
sedimentato dramma interiore. L’immagine del lungo viaggio in auto, immerso in bellezze
naturali senza confine, di Mildred (Frances
McDormand, Premio Oscar 2018 come Migliore Attrice Protagonista) e Dixon (Sam Rockwell, Premio Oscar come Miglior Attore non Protagonista)
conferisce forma e respiro al lungo cammino delle loro anime verso quel
baluginio di luce che prima non intravedevano; al viaggio di Mildred dalla sua angosciata
e angosciante solitudine ad un sentore di speranza; dalla (forse solo apparente)
psicopatia di Dixon alla sua presa di coscienza di un nuovo Dixon, o semplicemente
del Dixon precedente a quello apparso a seguito della morte del padre.
Il
film è la storia di crisalidi che mettono in comune il proprio buio, per
cominciare a prendere il volo dopo aver ricevuto la lettera di un suicida.
Fabrizio Giulimondi
Nessun commento:
Posta un commento