Ce lo
diciamo sempre tutti che è necessario
dare ascolto all’opinione dei molti, anche se provano a insegnarci il contrario,
ce lo ripetiamo sempre, perché, per come abbiamo imparato a vivere, è la
verità. Perché è vero che l’opinione dei molti è spesso anche la nostra opinione, come è vero che i molti
siamo noi stessi insieme con gli altri, che diciamo cose senza sapere se le
pensiamo davvero. Si può dire che al liceo si impari questo. In questa terra di
mezzo, dove non si è ancora deciso se essere bambini o essere adulti, si impara
a stare in equilibrio tra ciò che dentro cerchiamo di essere e ciò che fuori
già è. E di solito falliamo. In verità, in cinque anni di studio “matto e
disperatissimo” si scivola molto più spesso nell’abnegazione, nell’oblio, nella
furia e nel tempestoso luogo dell’apparenza, perché, diciamocelo, non siamo
ancora pronti per la sostanza. A quindici, sedici, diciassette, diciotto anni
non si è mai abbastanza soli con se stessi, soli tanto da abituarci alla nostra
voce, ai nostri pensieri, alle nostre opinioni. Siamo sempre più abituati alla
voce degli altri, alla confusione delle giornate, al vociare della ricreazione,
all’ansia spesso ingiustificata che tutto il resto ci crea. Non siamo mai
realmente noi, lo siamo solo in parte e solo occasionalmente perché
costantemente presi da qualcosa di più importante. E forse, per adesso, va bene
così; forse è giusto pensare che Socrate ha ragione, ma Critone è più
ragionevole, perché, in una mentalità abituata alla democrazia – la violenza del popolo –, i molti sono la
maggioranza e noi, proprio noi stessi, saremo sempre e comunque una minoranza.
Ed è qui che l’Io si perde, si perde
quando si scontra e cozza contro il mondo che dice sempre tutto il contrario,
contro le buone maniere che non si sa più se seguire, contro la moda, il tempo
che corre sempre più veloce, contro le lezioni di canto, danza, inglese,
ginnastica, le ripetizioni e l’alternanza scuola-lavoro; si perde dentro il
sesso che manca d’amore, dentro la disillusione andata in tendenza e i desideri
repressi perché “tanto non si avvereranno mai”. È un Io un po’ logoro il nostro, sempre mortificato, troppo pieno
dell’opinione dei molti, anche di tutti, direi. Non è una novità di questo
secolo, la solitudine non è un’esclusiva di questa generazione, ma forse è
propria della razza umana che, di fatto, non ha mai fatto altro che cercare
accettazione, conferme, riconoscenza. Hegel diceva che il primo bisogno
dell’autocoscienza, che adesso mi prendo la licenza di chiamare Io, è quello di essere riconosciuta da
un’altra autocoscienza, altrettanto autonoma, altrettanto uguale e noi, messo
piede in questa prova generale della vita quale è il liceo, non facciamo che
questo: cerchiamo riconoscimento, rassicurazione. Ed è così che perdiamo la
nostra autonomia, la nostra autocoscienza,
creando un sistema di forme che cercano sostanze senza trovarle, un sistema di
apparenze che cercano essenze. Così ci ammaliamo degli altri, delle loro
opinioni, dei loro sguardi cattivi che sono cattivi quanto il nostro e quando
più abbiamo bisogno di noi, ad essere rimasti sono solo questi molti, questi
occhi che ci fissano e ci distraggono. In effetti, si tratta solo di
distrazione che è, invece, tipica del nostro tempo, dove si guarda attraverso
uno schermo e si è disimparato a guardare davvero, con attenzione, con
pazienza. Trovare noi stessi non è cosa da chi è disattento, da chi è distratto
dal potere della maggioranza e la maggioranza è sempre una grande influencer, soprattutto quando si è giovani
e ancora disarmati, non ancora abituati a selezionare, capire, cogliere senza
domandare. Proprio nel Critone,
Socrate ci dice che è una questione di allenamento, una ginnastica con la quale
l’occhio si abitua a vedere dove non si vede, a dare importanza all’importante
e scartare il resto, perché abbiamo un’incorreggibile tendenza a vivere per il
superfluo, senza mai interpellare noi stessi, perché se di tanto in tanto lo
facessimo, sapremmo quanto fa male.
Alessia Giulimondi
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