Le riflessioni che Antonio Palma elabora nel suo ultimo
volume costituiscono lo sviluppo di ricerche che l’insigne Studioso ha da tempo
intrapreso sul processo civile romano. Ma – come abbiamo sentito dalle parole
degli autorevoli relatori che mi hanno preceduto – non coglierebbe nel segno
chi presumesse di trovarsi di fronte all’ennesima indagine storica. Lo studio
del Professore Palma mostra, infatti, un amplio respiro che si articola
attraverso eterogenei snodi problematici di profondo interesse, non solo per gli
storici del diritto ma, altresì, per la più vasta comunità dei cultori della
teoria generale del processo.
D’altronde, Antonio Palma, tenendo un atteggiamento
pioneristico, ha da sempre concentrato la propria analisi su argomenti utili ad
aprire suggestivi scenari su aspetti di ermeneutica giuridica che innervano le
strutture processuali proprie delle nostre aule di giustizia e non solo del
diritto romano.
Si pensi ai contributi che hanno indagato i parametri
interpretativi come la benignitas, l’humanitas e la civilitas nella creazione ed applicazione del diritto[1] e che
hanno dimostrato come la giurisprudenza romana attraverso l’uso di motivazioni
umanitarie abbia cercato di rifondare la giuridicità in termini
universalistici. Non solo. Ma in più occasioni Antonio Palma ha indagato i
meccanismi e le dinamiche attraverso cui il giurista – sia romano che
contemporaneo – ha tentato e tenta di offrire il suo apporto alla risoluzione
dei problemi della società in cui vive e opera per il tramite di soluzioni che
siano considerate comunemente come “giuste”. Così viene evidenziato come nell’esperienza
romana la sententia risolutiva di un
singolo caso seppur potesse rimanere isolata poteva comunque innescare un ampio
dibattito sulla sua adeguatezza alle istanze sociali e al quale avrebbero dato
il loro contributo – di varia qualità e valenza pratica – magistrati, giudici,
giuristi e pubblica opinione. Un dibattito che avrebbe potuto condurre, qualora
la decisione fosse stata condivisa da queste diverse parti, alla fissazione
della regola che, come si approfondisce nel volume, avrebbe così dimesso il suo
originario carattere episodico per porsi quale precedente da cui le decisioni
future non avrebbero potuto facilmente prescindere.
Il Professore che manifesta, così, tutta la sua
sensibilità di storico e giurista positivo, attento conoscitore dei meccanismi
del diritto romano e contemporaneo, soprattutto amministrativo, dichiara la sua
convinta adesione a un diritto, come quello romano, di marca giurisprudenziale
perché capace di garantire il massimo di aderenza delle singole decisioni al
senso comune. L’Autore traccia nelle sue pagine suggestivi margini di
corrispondenza tra l’esperienza giuridica antica e quella moderna, nella quale
l’attenzione è concentrata sulla giurisprudenza delle Corti e non su quella iurisprudentia quale prodotto
caratteristico delle attività dei giuristi romani. Emerge, così, la cifra
metodologica dello Studioso che da sempre lo ha contraddistinto: una costante
tensione ad una disamina diacronica tra il passato e il presente. Forte di
questa prospettiva il flusso argomentativo dell’opera si riversa, dunque, sia nella
correlazione tra interpretazione del diritto, giurisdizione del magistrato e
attività decisoria del giudice; sia nella connessione tra la regula iuris intesa come nucleo
decisionale del caso concreto e un sistema di regole generali a fattispecie
astratta elaborato dai giuristi. Sistema di regole di derivazione casistica, ma
di struttura generale, che si connette con l’alternarsi di un pensiero
giurisprudenziale che ritrova nel diritto controverso la sua più feconda
manifestazione.
Il titolo stesso del volume evidenzia, d’altronde,
l’opzione ideologica dell’Autore per una prevalente efficacia del giudizio e,
dunque, della regola che dal giudizio germina sull’astratta e generica
previsione legislativa.
Il professor Palma nelle sue pagine attraverso una
ridefinizione dello ius controversum
come diritto della controversialità sposta l’attenzione sul giudizio, sul
giudice e sugli altri soggetti del processo, che concorrono, ognuno con la
propria sensibilità, alla costruzione di un ciclo sapienziale dal quale
scaturisce la res iudicata tesa a
divenire regola di giudizio nella sua reiterazione giustificata dalla sua
condivisibilità valoriale. Con ciò evidenziando come il diritto romano, come
ogni ordine giuridico, non possa e non debba essere contemplato da un solo
punto di osservazione, nel caso di specie quello dei giuristi. Nelle pagine che compongono il libro,
il Professore Palma evidenzia, attraverso la lente dello storico volto alla
comprensione del presente, il fenomeno di graduale superamento all’interno del
diritto vivente delle differenze tra modalità, in sostanziale concorrenza,
dell'interpretazione giurisprudenziale nei sistemi di diritto anglosassone e
quelli continentali, che rappresenta il vero nodo problematico dell'attuale
fase storica. In questa prospettiva, infatti, la Corte di Cassazione, come
ricorda l’Autore, ha prestato l’avvallo alla prassi riduttiva della motivazione
sulle questioni di fatto, ritenendo che il giudice abbia il dovere di motivare
solo con riferimento alle prove su cui ha fondato la propria decisione, ma non
in ordine a quelle contrarie, in tal modo esonerando, di fatto, il giudice
dall'obbligo di esporre le ragioni della propria scelta: principio, questo,
appena temperato dal dovere del giudice di appello di giustificare la decisione
in ordine ai fatti principali della controversia, a pena di incorrere nel vizio
di omessa o insufficiente motivazione.
Condivisibile fino in fondo è, in questa prospettiva,
il punto di vista secondo cui a detta di Gabriella Muscolo "in un ordinamento
in cui la legittimazione del giudice a dire il diritto è legittimazione
democratica, la interpretazione creativa pone con maggiore urgenza la questione
dei limiti alla discrezionalità del giudice"[2],
per cogliere questo limite, appunto, nella motivazione della sentenza.
Viene indagata, in questa prospettiva, la natura della
regula che è insieme: principio –
norma – regola del caso, a seconda dalla strategia interpretativa di chi è
chiamato a giudicare, siano essi giuristi o giudici. La costitutiva ambivalenza
della regola si rispecchia così nelle fonti romane nella dialettica complessa
tra regole consolidate che poi sistematicamente vengono disattese di fronte a
casi limite, gli hard cases di cui ci
parla Ronald Dworkin, ma non per l’intrusione di valori opposti a principi, ma
per la costitutiva natura delle regole stesse. Infine, l’Autore, affronta
dall’interno, attraverso una serrata esegesi testuale, il problema della denegatio actionis che sembra una
conferma ulteriore di un potere giurisdizionale in grado di rompere il sistema
delle regole, operando un adeguamento d’imperio della norma al caso ed alle
esigenze sociali di giustizia. Sullo sfondo un contesto di pratiche processuali
deformalizzate disponibili dalle parti dominate da una prevalente
inafferrabilità documentale, l’oralità, con tutto ciò che consegue per istituti
propri del diritto processuale come la definizione della res iudicata.
Numerosissimi, pertanto, i pregi di questo libro tra i
quali il momento del rapporto dialettico con la modernità giuridica: il lavoro
coglie i termini di un confronto tra le dinamiche processualistiche
caratterizzanti ora il mondo romano, ora il mondo moderno
Di tutto questo, e di altro ancora, l’opera di Antonio
Palma offre un nitido e affascinante affresco.
[1] A. Palma, Humanior interpretatio. Humanitas
nell'interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino, Giappichelli, 1992; Id., Benignior
interpretatio. Benignitas nella giurisprudenza e nella normazione da Adriano ai
Severi, Torino, Giappichelli, 1997; Id., Civile, incivile, civiliter, inciviliter.
Contributo allo studio del lessico giuridico romano, in Index, 12, 1983-1984, pp. 257-289.
[2] G. Muscolo, Il «volto
non comune» della verità processuale, in A.
Mariani Marini (a cura di), Processo
e verità, Pisa, 2005, pp. 69-79.
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