Negli ultimi anni si sente parlare sempre più spesso di
un fenomeno che ha tristemente raggiunto dimensioni eclatanti che prendendo le
mosse dalla violenza sulle donne talvolta culmina nella morte delle vittime.
In un’attuale situazione di emergenza e di denuncia
sociale di comportamenti malsani ed aggressivi nei confronti delle donne si
inserisce il neologismo “femminicidio”, coniato in occasione della strage delle
donne di Ciudad Juarez (città al confine tra Messico e Stati Uniti) ed adottato
dalle donne centroamericane per veder riconosciuti e rispettati i propri
diritti umani, in particolare quello ad una vita libera da qualsiasi forma di
violenza.
La città di Ciudad Juarez è tristemente ricordata per
l'eliminazione fisica nel 1993 di un vasto numero di donne stimato al di
sopra di 370 unità. Le uccisioni di donne hanno ricevuto un interesse internazionale a
seguito dell’inattività del governo nel prevenire la violenza contro le donne
scomparse nel nulla per poi essere ritrovate nel deserto stuprate ed ammazzate
e nell’assicurare i colpevoli alla giustizia.
Il femminicidio è la forma estrema della violenza
sulle donne, è l’atto finale del ciclo delle violenze maschili contro le donne
e di cui rappresenta l’apice. In termine si riferisce a tutti quei casi di
omicidio in cui una donna viene uccisa da un uomo per motivi relativi alla sua
identità di genere cioè di regola in relazione al fatto che la medesima sia
stata moglie o in una relazione sentimentale con l’autore del delitto, ovvero
il medesimo autore presumeva che la vittima dovesse iniziare o continuare la
relazione sentimentale o sessuale.
A volte questo genere di violenza è compiuta da
persone che hanno legami strettamente sentimentali con la vittima come mariti o
fidanzati, ma vengono compiuti anche da padri verso figlie o addirittura da
figli verso le madri.
Contrariamente alla rappresentazione mediatica tale
fenomeno non riguarda determinate culture diverse rispetto a quella occidentale
né può essere riferito alle sole condizioni di disagio sociale o marginalità
culturale, ma si iscrive, proprio come la violenza contro le donne nei normali
rapporti e conflitti tra uomo e donna. Si è solito identificare i principali fattori
di rischio per una donna di essere vittimizzata nei luoghi e nelle situazioni
ritenute più sicure, come l’abitazione propria o della famiglia e la relazione
coniugale o di coppia.
Come spesso accade a seguito del susseguirsi di
fenomeni criminali di allarme sociale che destano sconcerto e accendono
dibattiti nell’opinione pubblica dei media, il Governo ha ritenuto di
intervenire sul fenomeno mediante il decreto legge 119/2013.
Né il codice né il recente decreto hanno saputo fornire
però alcuna definizione di femminicidio.
Tuttavia dal punto di vista etimologico secondo una prima
definizione quest'ultimo comprende “qualsiasi forma di violenza esercitata
sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di
matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare
l’identità attraverso l’assoggettamento fisico e psicologico, fino alla
schiavitù o alla morte”.
Pertanto
in qualsiasi forma venga esercitata, la violenza rappresenta sempre l’esercizio
di un potere che tende a negare la personalità della donna: brutalizzando il
suo corpo o la sua anima si afferma il dominio su di essa, rendendola oggetto
di potere la si priva della sua soggettività.
Il femminicidio, quindi, è un
fatto sociale: la donna viene uccisa in quanto donna, o perché non è la donna
che l’uomo o la società vorrebbero che fosse.
Letteralmente femminicidio significa omicidio di una
donna per questioni di genere.
Dall’inglese “Femicide”
(uccisione di una donna) il termine femminicidio venne utilizzato nei primi
anni ‘90 dalla criminologa Diana Russel, la quale, identificava il femminicidio
in una categoria criminologica vera e propria, una violenza estrema da parte
dell’uomo contro la donna perché donna in cui cioè la violenza è l’esito di
pratiche misogine, in un ambito culturale in cui la misoginia è legittima e
dove il prodotto della violazione dei
diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte
misogine - maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa,
sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche
istituzionale - comportano l’impunità
delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e
che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, culminando
spesso con l’uccisione o il tentativo di
uccisione della donna stessa.
Dopo Russell, l’antropologa Marcela Lagarde
continua a sviluppare tale categoria fino a elaborare un concetto nuovo e più
ampio, quello di femminicidio, a indicare tutte quelle condizioni in cui la
violenza è tale da provocare l’annientamento fisico o psicologico della
personalità femminile. Risulta evidente la necessità di tipizzare il siffatta figura delittuosa quale violazione dei diritti umani delle donne, considerandolo un delitto
autonomo, avente caratteristiche e specificità che lo differenziano da altri
tipi di omicidi: l’esistenza di una violenza estrema, strutturale e sistematica
contro questi soggetti, i loro corpi e la loro dignità, all’interno di un
contesto in cui prevale una cultura maschilista, sessista e misogina che non
solo le discrimina e nega loro qualsiasi diritto, ma nasconde, tollera e
minimizza tali crimini, per di più nascosti da autorità corrotte, leggi ambigue
o carenti di meccanismi che diano risultati concreti. Da sempre nella storia le
donne durante le guerre hanno visto calpestati i diritti più elementari e sono
state vittime silenziose di stupri e feroci violenze fisiche e psicologiche.
Spesso, soprattutto in contesti di occupazione o guerra civile, la violenza
sulle donne è stata considerata uno strumento psicologicamente efficace contro
il nemico. Il corpo della donna diventa oggetto sul quale si manifestano
relazioni di potere: attraverso lo stupro il rivale viene umiliato, la donna
ripudiata o privata della sua funzione riproduttiva, se poi dallo stupro deriva
una gravidanza, viene affermata la superiorità biologica del gruppo rivale
(c.d. stupri etnici), destinando la donna e il feto alla morte o, nel migliore
dei casi all’abbandono. In tal modo la violazione del corpo della donna diventa
una strategia pianificata per conquistare la vittoria morale sul nemico. Lo
stupro sistematico viene così utilizzato in larga scala per colpire l’identità
di intere popolazioni, per infamare, disonorare e terrorizzare l’etnia nemica.
Una forma, dunque, di discriminazione e violenza
mirata a violare la donna fino ad annientarla nella sua sfera di integrità
psicofisica e che nella maggior parte dei casi presenta una
dimensione trasversale che interessa tutte le classi perché sta “dentro” il
nucleo base della comunità, la famiglia, e proprio per il suo essere familiare
spesso passa inosservata, e proprio per il suo essere familiare fa paura
chiamarla con un nome così terribile, femminicidio.
Curiosamente è stato dimostrato che alla
violenza sono maggiormente soggette le donne più ricche e quelle più povere: in
entrambe gli estremi il potere relazionale si fa più stringente e coercitivo
nei confronti della donna, che ha più difficoltà a svincolarsi dal rapporto.
Donne che malgrado tutto tentano la possibilità
dell’autodeterminazione, spingendosi alla conquista di spazi indipendenza
economica, psichica, sessuale, invadendo le sfere di competenza maschile,
riappropriandosi dei propri corpi e del diritto a trasformarli in spazi di
potere autonomamente gestito, programmando la maternità come se fosse davvero
un diritto a creare alla vita determina una destabilizzazione dell’intera
struttura sociale, provocando una
reazione tesa
all’autoconservazione , possibile solo attraverso la negazione della
libertà femminile, attraverso politiche di privatizzazione dei servizi, di
precarizzazione del lavoro, attraverso interventi “etici” che vanno a incidere
sui diritti riproduttivi della donna.
Il movimento femminista iniziato in occidente
dagli anni sessanta ha portato l’attenzione sul problema della violenza alle
donne, fenomeno non riconosciuto dalla società, fornendone una lettura
incentrata sulle modalità relazionali che si strutturano tra uomo e donna in
relazione alla diversità di genere. Tale approccio promuove l’affermazione dei
diritti della donne in cui esse iniziano a raccontare di sé. I centri antiviolenza costituiscono i primi
laboratori di ricerca di libertà, di autonomia e di espressione delle donne, a
partire dal loro desiderio di uscire dai condizionamenti.
Il sapere delle donne, l’analisi e la lettura
data dal femminismo alla violenza di genere dopo circa cinque decenni trovano
finalmente riconoscimento e legittimazione in un trattato a respiro
internazionale: la Convenzione del
Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e
la violenza domestica, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio
d'Europa il 7 aprile 2011 ed aperta alla firma l'11 maggio 2011. Il trattato si
propone di prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime ed
impedire l'impunità dei colpevoli. In Italia il 19 giugno 2013, dopo
l'approvazione unanime del testo alla Camera, il Senato ha votato il documento
con 274 voti favorevoli e un solo astenuto. Dal 1 agosto 2014 è legge.
Se si
considera il femminicidio come fatto sociale esso si manifesta con
caratteristiche peculiari (locali) differenti a seconda della struttura sociale
di riferimento. Se infatti la nostra società non riconosce la violenza sulla
donna a meno che questa si manifesti nelle forme più estreme, ed anche in
questi casi tende a “normalizzarla” più che a connotarla come violenza di
genere, vi sono società in cui alcune forme di violenza sulle donne sono
accettate come normali, in quanto è socialmente condivisa l’ideologia
patriarcale, che vuole la donna subordinata all’uomo. In queste società, la
violenza sulle donne si manifesta in forme particolarmente cruente.
Se poi consideriamo la violenza di matrice
religiosa legittimata dallo Stato si può notare l’esistenza di paesi dove le
legislazioni accolgono le disposizioni della sharia, come in Iran, dove per il
reato di lesbismo è prevista la condanna a morte, e spesso queste donne non
riescono ad ottenere neanche l’asilo politico perché non riescono a fornire le
prove degli abusi subiti nel paese d’origine, ovviamente non documentati in
quanto persecuzioni effettuate dalle forze dell’ordine.
Ma di violenza di matrice religiosa è più che
lecito parlare anche nel caso dell’ Induismo, che prevede che i figli maschi
siano gli unici a poter disporre i riti funebri dei genitori, che altrimenti
sono destinati a vagare in eterno senza riposo. Ciò provoca in India, Pakistan
e Bangladesh una discriminazione feroce nei confronti delle donne: per il ricorso
agli aborti selettivi, prima ancora che nascano, per essere sottoposte a
continue vessazioni da parte della famiglia di lui per ottenere dai suoi
genitori una dote più consistente. Infatti, anche se l’usanza della dote è
stata proibita per legge, essa è ampiamente diffusa, e non di rado accade
che i pretendenti rifiutati dalla donna, o il rifiuto della donazione di altri
beni in dote, siano le cause principali che rendono la donna vittima di
“incidenti apparentemente casuali”,
quali la deturpazione della donna con dell’acido, o la morte della stessa a
seguito di ustioni in cucina: anche in questi casi si dovrebbe parlare di
femminicidio, anche in questi casi lo Stato è complice di queste violenze private,
del business che dietro di esse si cela, fomentato dalle smanie consumistiche
che la modernizzazione del paese ha portato con sé, di ognuna di queste morti
rimaste impunite, perché archiviate come “morti per cause naturali”. Quando si
sceglie di offrire alle donne che subiscono violenza o ai familiari delle donne
uccise un indennizzo economico piuttosto che codificare tali fatti come di
rilevanza penale, come accaduto in Guatemala, si compie la discriminazione più
grande: il corpo della donna viene dal sistema giudiziale equiparato nel valore
e nella tutela ai “beni di consumo”, ai reati minori contro le cose.
Il femminicidio, nel suo essere un fenomeno globale e
trasversale, interessa, quale violenza brutale, tutte le classi sociali ed ha
come comune denominatore il nucleo base della comunità e della famiglia.
Il nostro diritto di famiglia, riconosciuto
sin dal 1975 che secondo quanto
affermato da Stefano Rodotà, anche attraverso il codice napoleonico del 1804, era
nato per l'ammirazione del futuro imperatore per le regole locali sulla
famiglia durante la campagna d'Egitto.
Ecco
perché nella nostra legislazione il capofamiglia era il marito, che assicurava
protezione alla moglie, che per questo gli doveva obbedienza: si parlava di
diritti dell'uomo e doveri della sposa. Ciò denota profonde ed antiche radici
del drammatico fenomeno della violenza alle donne, sociali e psicologiche, nella
differenza dei sessi. I filosofi contemporanei ,tra cui Massimo Cacciari
identificano un equilibrio delle
relazioni intersoggettive in una dimensione di amore, come quella di amicizia che
comporta una dimensione di gratuità, di libertà, la negazioni di qualsiasi
calcolo di interesse, altrimenti non sarebbe nemmeno possibile costruire un
coppia e tanto meno una comunità, , per il quale, alla base di tutto, è l'amore
per la conoscenza, anche la conoscenza dell'altro, che implica impegno,
volontà, mentre quando tutto questo viene meno, ecco che può accadere qualsiasi
cosa, che si agisce al di fuori dell'amore.
Da
qui nasce la violenza di genere, la strage di donne uccise probabilmente per gelosie
per paura di dover affrontare delle idee forti per paura di perdere il
controllo sul sesso opposto da sempre sottomesso. È quella chiusura in sé,
quella solitudine di ognuno, anche nella coppia che può arrivare
all'esasperazione, specie nei momenti in cui non è più facile essere razionali, pensare a
costruire un rapporto vero, capace di riconoscere l'altro come diverso da sé.
La
violenza sulle donne non è un problema solo delle donne, non si possono
lasciare sole le associazioni di donne, le case di accoglienza per le donne
maltrattate, le vittime della violenza, le femministe, qualche uomo o qualche
intellettuale illuminato, a cercare di gridare ai quattro venti le difficoltà
di essere donna oggi in Italia, a chiedere aiuto perché non ci sono i fondi per
aiutare chi vuole uscire dalle situazioni di violenza, a raccogliere le
prostitute dalla strada, a combattere da sole contro i mulini a vento, tutto
sommato. La violenza sulle donne non può essere più solo un problema privato, è
un fatto sociale che va affrontato nella sua dimensione pubblica perché “la
promozione e la tutela dei diritti delle donne sono requisiti fondamentali per
costruire una vera e propria democrazia”, ed “occorre utilizzare tutti i mezzi
possibili per prevenire il fenomeno
Si segnala che le forze dell’ordine non sempre
trasmettono con immediatezza la notizia di reato alle Procure, così ritardando
l’immediata iscrizione della notizia di reato e lasciando la donna priva di
tutela proprio nel momento di massimo rischio per la sua incolumità: è,
infatti, con la presentazione della denuncia/querela che nella maggioranza dei
casi l’uomo aumenta di intensità la sua condotta violenta per punire la scelta
della donna di interrompere la relazione. Spesso non si applicano le misure
cautelari idonee a prevenire fatti di violenza più gravi di quelli denunciati,
poche volte si procede, in caso di violazione della misura cautelare,
all’aggravamento delle stesse, troppo spesso la misura cautelare perde di
efficacia prima della sentenza di primo grado. Tali prassi violano gli obblighi
sanciti agli articoli 51, 52 e 53 della Convenzione. Non è un caso che nella
maggioranza dei casi le donne sono state uccise dai partner o ex partner dopo
aver presentato la querela. Anche in ambito civile si registra la non
tempestività delle autorità nel garantire l’accesso delle donne alla giustizia
se si considera che, dopo il deposito di un ricorso civile per separazione o
per l’affidamento dei figli, la prima udienza presidenziale può avvenire anche
dopo otto/dieci mesi; nel frattempo la donna rimane priva di tutela anche per
quanto concerne gli ordini di protezione che possono disporsi in sede civile.
Poche le tutele anche per i figli minorenni vittime di violenza assistita:
diffuse sono le prassi che si pongono in violazione al principio dell’art. 31
della Convenzione di Istanbul che impone di considerare nelle decisioni
relative all’affidamento dei figli minorenni i pregiudizi psicofisici causati
agli stessi per avere assistito alla violenza.
Quello
che manca è un’ ampia campagna di prevenzione ed educazione, è rendere
effettivi gli strumenti di tutela disponibili, è evitare che al momento della
denuncia o della cura la violenza di genere non venga riconosciuta, è evitare
che si verifichino ingiustizie al momento dell’applicazione della legge perché
i soggetti giudicanti mancano di prospettiva di genere, è riconoscere che la
violenza maschile contro le donne è il maggior problema strutturale della
società, che si basa sull’ineguale distribuzione di potere nelle relazioni tra
uomo e donna, e incoraggiare la partecipazione attiva degli uomini nelle azioni
volte a contrastare la violenza sulle donne, è “riconoscere che lo Stato ha
l’obbligo di esercitare la dovuta diligenza nel prevenire, investigare, e
punire gli atti di violenza, sia che siano esercitati dallo Stato sia che siano
perpetrati da privati cittadini, e di provvedere alla protezione delle vittime.
Il primo problema infatti è quello delle denunce mancate da parte di donne che
non credono nelle Istituzioni, che temono quello che purtroppo i frequente
accade, la “rivittimizzazione”. Altre donne sono talmente assuefatte alle
molestie e alle angherie dei propri “cari”, che non denunciano solo per
difendere se stesse da una realtà che altrimenti le distruggerebbe.
È
un fenomeno che resiste nel tempo e in tutte le culture. Nel 2006 è stata avviata un’indagine, per la
prima volta interamente dedicata al fenomeno della violenza contro le donne, frutto
di una convenzione tra l’Istat e il Ministero per i Diritti e le Pari
Opportunità che l’ha finanziata con i fondi del PON “Sicurezza” e “Azioni di
sistema” del Fondo Sociale Europeo. Attraverso un campione di 25.000 mila donne tra i 16 e i 70 anni
misura tre diversi tipi di violenza agiti dentro la famiglia e fuori di essa:
la violenza fisica, la violenza sessuale, la violenza psicologica. Le cifre ad oggi sono davvero
impressionanti: 6 milioni 743 mila le donne vittime di violenza, pari al 31,9%;
il 23,7% ha subito violenze sessuali (5 milioni); il 18,8% ha subito violenze
fisiche (3 milioni 961 mila); il 4,8% ha subito stupri o tentati stupri (1
milione); il 18,8% ha subito comportamenti persecutori (stalking); 7 milioni 134 mila hanno subito
violenza psicologica.1 milione 400 mila
donne hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni, il 6,6% del totale. Più di metà delle vittime non ne ha parlato
con nessuno. La letteratura internazionale sulla violenza domestica
sottolinea come i comportamenti violenti si trasmettono tra le generazioni. La
violenza subita e di cui si è stati testimoni da piccoli aumenterebbe il
rischio che il comportamento venga riprodotto da adulti. È stata, anche,
individuata una relazione tra l’essere stato testimone o l’aver subito da
piccoli violenza e la vittimizzazione da adulti. Anche gli ultimi dati ISTAT, di recente pubblicazione (15 giugno 2015) confermano l’estrema diffusione e pervasività della
violenza maschile contro le donne anche se a nove anni dalla prima indagine
sulla violenza contro le donne, registrano un miglioramento sul fronte degli
abusi domestici oppure accaduti fuori dalla famiglia. Anche gli ultimi dati ISTAT, di recente pubblicazione
(15 giugno 2015) confermano
l’estrema diffusione e pervasività della violenza maschile contro le donne
anche se a nove anni dalla prima indagine sulla violenza contro le donne,
registrano un miglioramento sul fronte degli abusi domestici oppure accaduti
fuori dalla famiglia. Le statistiche degli omicidi volontari registrati in
Italia hanno previsto che il 2013 ha la più elevata percentuale di donne tra le
vittime di omicidio mai registrata in Italia, pari al 35,7% dei morti ammazzati
(179 sui 502). Il Lazio e la Campania con 20
donne uccise presentano nel 2013 il più alto numero di femminicidi tra le
regioni italiane; nelle
regioni del Nord si configura essenzialmente come fenomeno familiare, con 46
vittime su 60, pari al 76,7% del totale; sono il 68,2% dei casi al Centro e il
61,3% al Sud; le "mani nude" sono il mezzo più ricorrente, 51
vittime, pari al 28,5% dei casi: le percosse hanno riguardato il 5,6% dei casi,
lo strangolamento il 10,6% e il soffocamento il 12,3%; la percentuale di questi crimini posti in essere con armi da fuoco resta alta (49, pari al 27,4% del totale) e con
armi da taglio (45 vittime, pari al 25,1%).
Collegato
alla modalità di esecuzione è il movente. Quello 'passionale o del possesso'
continua ad essere il più frequente (504 casi tra il 2000 e il 2013, il 31,7%
del totale): "Generalmente - dice il dossier - è la reazione dell'uomo
alla decisione della donna di interrompere/chiudere un legame, più o meno
formalizzato, o comunque di non volerlo ricostruire. Di fronte a questo è
necessario prospettarsi delle soluzioni.
Quello
che serve quindi, oltre alla volontà politica di mettersi in gioco, sono anche
fondi da parte del Governo per aumentare il numero dei centri anti-violenza
istituiti a livello territoriale e per garantire alla vittima l’esistenza di
una rete organizzativa locale che sia in grado di prendersi cura di lei
mediante l’attività delle asl dei consultori attraverso gruppi di psicologhe, psichiatre
e, soprattutto, attraverso la valorizzazione dei centri anti-violenza . Alla
base di tali centri la metodologia dell’accoglienza a partire dalla relazione
tra donne è rivolta al rafforzamento (empowerment)
dell’identità della donna. Le donne sopravvissute alla violenza, la violenza
stessa, le sue conseguenze, non vanno considerati come dati obiettivi e
fenomeni omogenei, così come gli eventuali sintomi presentati non possono
essere considerati un oggetto a cui sovrapporre le professionalità della cura. I
Centri favoriscono l’autonomia delle donne e promuovono cultura e formazione a
vari livelli per sensibilizzare e prevenire la violenza maschile alle donne
attraverso l’accoglienza mediante un ciclo di colloqui con l’operatrice,
eventuale consulenza psicologica, legale e di orientamento al lavoro, organizza
gruppi di auto-aiuto; l’”ospitalità” alle donne con i loro figli minori oltre ai
servizi previsti dall’accoglienza con vitto e alloggio per quelle situazioni in
cui la donna necessita di allontanarsi da casa e non ha soluzioni alternative I
Centri favoriscono l’autonomia delle donne e promuovono cultura e formazione a
vari livelli per sensibilizzare e prevenire la violenza maschile alle donne:la promozione
della ricerca (indagini qualitative e quantitative) anche
attraverso la raccolta e l’elaborazione dei dati relativi alle donne che
accedono al Centro, garantendo la massima riservatezza; la promozione di politiche e piani
d’azione locali, nazionali e internazionali contro la violenza, interloquendo
con le amministrazioni nazionali, regionali e locali, l’attività di promozione e prevenzione
nelle scuole per incidere più a lungo termine sull’aspetto
culturale/strutturale della violenza di genere. E rivolto non solo alle donne
ma anche agli stessi operatori sanitari se richiesto è possibile usufruire di
un sostegno psicologico individuale e/o
di sostegno alla genitorialità per intervenire sulle conseguenze più
gravi della violenza subita. Attivazione di un percorso legale,
volto ad avviare la separazione e l’eventuale denuncia penale per le violenze
subite. Attivazione di percorsi volti a facilitare l’inserimento
lavorativo o a completare la propria formazione scolastica e professionale. I centri promuovo anche l’attivazione di
colloqui di accoglienza e di sostegno per minori che arrivano al centro con
gravi traumi psicologici conseguenti alla violenza assistita al fine di
riconoscere un ruolo genitoriale più consapevole nella loro madre troppe volte malvista
a causa di pressioni psicologiche del padre che la raffigurava come una cattiva
figura genitoriale. Tali centri sono organizzati da un gruppo di psicologhe, avvocati
e operatrici e l’elemento fondamentale è proprio la presenza esclusiva di donne
nella gestione degli stessi perché solo chi ha subito gli stessi problemi, chi
si espone agli stessi problemi anche nella vita quotidiana, che può significare
lo sguardo viscido di un uomo alla vista di una gonnellina mentre passeggi per
strada, può comprendere appieno. E’ con l’operatrice che la donna -vittima costruisce il
proprio progetto di vita, il cui principale lavoro consiste proprio nell’elaborare il vissuto di violenza centrando la donna su sé stessa,
aiutandola a riconoscere la violenza subita, elaborare sentimenti di vergogna,
paura e colpevolezza, favorire l’emergere della persona identificando i bisogni
e i principali punti di forza. Inoltre tale compito consiste anche
nell’accompagnare la donna nel percorso per riacquistare stima di sé, tornare a
lavorare a piccoli passi. Le professionalità della legale, della psicologa e della operatrice formano un equipe che mira ad una maggiore
consapevolezza e distribuisce maggior forza attraverso racconti di violenza sia
alle consulenti sia alle donne vittime di soprusi. Le donne possono accedere al Centro direttamente o
su invio dei servizi sociali dei comuni di residenza, delle forze dell’ordine,
dei servizi sanitari e dei vari servizi presenti sul territorio, o tramite il
1522. Fondamentale è poi una campagna di sensibilizzazione nelle
scuole probabilmente infondendo valori proprio in coloro che sin da subito si
presentano più violenti scongiurando qualsiasi tipo di comportamento di questo
genere mediante un lavoro costante da parte degli esponenti di questo centro
anti - violenza con lezioni ad hoc fin dall’infanzia e creare un apposito database di informazione dei centri anti - violenza tale
da garantire una costante informazione di esperienze di vite vissute. Aspetto
davvero importante soprattutto per i maschi è l'"educazione emotiva", cioè l'accompagnamento a riconoscere e verbalizzare le proprie emozioni senza lasciare che queste
crescano incontrollate anche attraverso un adeguato contributo familiare perché
è luogo primario dove il bambino cresce ed è un modello che difficilmente verrà
dimenticato.
Altro aspetto fondamentale è una maggiore collaborazione
delle forze dell’ordine in merito alle denunce presentate da donne vittime di
soprusi. Si richiede una maggiore presa a carico di tali denunce fin dalle
prime chiamate al fine di garantire l’introduzione di una forma di denuncia
cautelativa.
Inoltre,
è necessaria anche un’ adeguata codificazione del reato di femminicidio mediante
la previsione di una pena che svolga una
funzione deterrente e general-preventiva e probabilmente una riforma del
sistema penale nella parte dedicata ai delitti contro la persona e, in
particolare, ai reati di violenza sessuale, al reato di percosse, alle lesioni personali con
l’inasprimento delle pene previste perché, alla luce dei frequenti casi di
violenza che i dati nazionali ed internazionali registrano, si avverte l’esigenza
di abbattere tali soprusi, garantendo una adeguata applicazione della Convenzione
di Istanbul che, all’art. 9, prevede la
necessità di riconoscere e sostenere a
tutti i livelli il lavoro delle associazioni della società civile attive nella
lotta alla violenza contro le donne. Occorre adottare misure necessarie per promuovere i cambiamenti
nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di
eliminare i pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata
sull'idea di inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle
donne e degli uomini (art.12 Convenzione di Istanbul) perché solo se i Governi riescono a prendere una posizione
forte contro la violenza sulle donne e a garantire loro il diritto alla
sicurezza che come consociate gli spetta, si renderanno capaci di vincere
questa battaglia.
Fabrizio
Giulimondi
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