giovedì 26 dicembre 2019

"L'ARCHITETTRICE" di MELANIA G. MAZZUCCO


La storia sembrava ripetersi, con una lugubre mancanza di fantasia”.
Un lungo e complesso studio ha spinto la pluripremiata letterata Melania G. Mazzucco ad aggirarsi per archivi, biblioteche e musei, per poi farla approdare ad un romanzo impervio e denso, fitto come nebbia, “L’Architettrice” (Einaudi), sulla vita romanzata della prima donna architetto, Plautilla Briccia, nata e vissuta a Roma nella metà del 1600.
La scrittura si fa architettura, poesia, prosa, scultura, pittura, letteratura, pietanze odorose come giardini floreali: nella Roma seicentesca dei papi e repubblicana del 1849 “L’Architettrice” è “architettura, pittura, letteratura e giardino narrati in ogni dettaglio con stile vivace”.
Un mosaico di parole molto ricercate a struttura tridimensionale innerva la narrazione rendendola difficoltosa come una coltre di nuvole che si adagia su un terreno sconnesso di intrighi di palazzo, intrecci familiari e storie di armi e di tenzoni, inestricabili come fili di un tappeto persiano. Vocaboli impolverati tirati fuori da cassetti dimenticati incontrano espressioni del vernacolo di Belli e di Trilussa.  La lingua è come “un disegno in pietra, un pensiero in qualcosa di solido, perenne”. La trama si dipana fra merletti e ricami arzigogolati imbevuti d’arte, d’artisti, di uomini comuni, di cardinali, principi, abati e Pontefici.
La peste manzoniana trasloca da Milano a Roma nel 1656 e si allunga sulla aggressione francese alla brevissima esperienza della Repubblica romana, aggressione illustrata similmente alle possenti prime scene del film di Spielberg “Salvate il soldato Ryan”.
L’Architettrice” ricorda un arazzo ed evoca una orchestra di melodie dissonanti in cui singole sinfonie si impongono sulla interezza dell’opera, talora intabarrata ed offuscata dal florilegio di storie che figliano altre narrazioni che a loro volta generano ulteriori racconti.
L’eteronimia è il respiro del romanzo, pittura dei sogni degli altri: tutti sono se stessi solo quando fingono di essere gli altri.
La cultura è strumento salvifico di anonime e miserande esistenze e disarticolazione della romanità, autentica anima del romanzo: “I romani mugugnano e sfottono, ma non si espongono, aspettano sempre che sia qualcun altro a disarcionare il cavaliere, e poi amano infierire su chi è caduto”.
La morte, sfrontata accompagnatrice dei protagonisti e delle comparse più nascoste, è il verace flautus vocis del romanzo
L’Autrice seziona Roma in tutta la sua grandiosa quotidianità: “Roma è lontana, ma non si lascia dimenticare neanche per un istante. È un tumulto di barcaioli che si chiamano sulla riva del fiume, odore d’acqua e di fango, passi ritmati di soldati, litanie di accattoni, cantilene di ambulanti”.
Fabrizio Giulimondi

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