“La storia sembrava ripetersi, con una
lugubre mancanza di fantasia”.
Un
lungo e complesso studio ha spinto la pluripremiata letterata Melania G. Mazzucco ad aggirarsi per
archivi, biblioteche e musei, per poi farla approdare ad un romanzo impervio e
denso, fitto come nebbia, “L’Architettrice”
(Einaudi), sulla vita romanzata della
prima donna architetto, Plautilla Briccia, nata e vissuta a Roma nella metà del
1600.
La
scrittura si fa architettura, poesia, prosa, scultura, pittura, letteratura, pietanze
odorose come giardini floreali: nella Roma seicentesca dei papi e repubblicana del
1849 “L’Architettrice” è “architettura, pittura, letteratura e
giardino narrati in ogni dettaglio con stile vivace”.
Un
mosaico di parole molto ricercate a struttura tridimensionale innerva la
narrazione rendendola difficoltosa come una coltre di nuvole che si adagia su
un terreno sconnesso di intrighi di palazzo, intrecci familiari e storie di
armi e di tenzoni, inestricabili come fili di un tappeto persiano. Vocaboli
impolverati tirati fuori da cassetti dimenticati incontrano espressioni del
vernacolo di Belli e di Trilussa. La
lingua è come “un disegno in pietra, un
pensiero in qualcosa di solido, perenne”. La trama si dipana fra merletti e
ricami arzigogolati imbevuti d’arte, d’artisti, di uomini comuni, di cardinali,
principi, abati e Pontefici.
La
peste manzoniana trasloca da Milano a Roma nel 1656 e si allunga sulla
aggressione francese alla brevissima esperienza della Repubblica romana, aggressione
illustrata similmente alle possenti prime scene del film di Spielberg “Salvate
il soldato Ryan”.
“L’Architettrice” ricorda un arazzo ed
evoca una orchestra di melodie dissonanti in cui singole sinfonie si impongono sulla
interezza dell’opera, talora intabarrata ed offuscata dal florilegio di storie che
figliano altre narrazioni che a loro volta generano ulteriori racconti.
L’eteronimia
è il respiro del romanzo, pittura dei sogni degli altri: tutti sono se stessi
solo quando fingono di essere gli altri.
La cultura
è strumento salvifico di anonime e miserande esistenze e disarticolazione della
romanità, autentica anima del romanzo: “I
romani mugugnano e sfottono, ma non si espongono, aspettano sempre che sia
qualcun altro a disarcionare il cavaliere, e poi amano infierire su chi è
caduto”.
La
morte, sfrontata accompagnatrice dei protagonisti e delle comparse più
nascoste, è il verace flautus vocis
del romanzo
L’Autrice
seziona Roma in tutta la sua grandiosa quotidianità: “Roma è lontana, ma non si lascia dimenticare neanche per un istante. È
un tumulto di barcaioli che si chiamano sulla riva del fiume, odore d’acqua e
di fango, passi ritmati di soldati, litanie di accattoni, cantilene di
ambulanti”.
Fabrizio Giulimondi
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