“Hammamet” di Gianni Amelio non è un film. “Hammamet”
è il film. Pierfrancesco Favino non è
un attore. Pierfrancesco Favino è l’attore.
Favino
non interpreta Craxi. Favino è
Craxi. Favino si indentifica in Craxi
e in esso scompare (trucco extra ordinem
di Andrea Leanza e Federica Castelli). Il pubblico non
osserva un artista che riveste i panni di un personaggio evocandone la
corporeità e l’anima, bensì scruta un interprete che si trasforma nel
personaggio evaporando in esso. Il Giulio Andreotti della pellicola di Paolo
Sorrentino “Il divo” è Toni Servillo che rimanda magistralmente all’esponente
scudocrociato, ma lo spettatore si ferma ad ammirare il Premio Oscar partenopeo.
In “Hammamet” le movenze, l’andamento
claudicante, il vezzo di toccarsi spesso gli occhiali rossi, la tonalità della voce, la parlata attenta
e pensata, le movenze, la mimica, la gestualità, non ricordano Bettino Craxi ma
sono Craxi, un Craxi oramai gravemente diabetico, cardiopatico e malato di
tumore in “esilio” ad Hammamet. Il metodo Stanislavskij irrompe prepotentemente
sul set, ossia nell’autentica villa tunisina, ben lontana dalle false
rappresentazioni compiute dai rabbiosi rotocalchi del tempo.
Storia
di tenera e commovente devozione della figlia Stefania (nel film Anita), sul
rapporto travagliato con il figlio Bobo, affettuoso con il giovanissimo nipote
e fantasioso con il figlio di Vincenzo Balsamo, segretario amministrativo del
PSI, invero non morto suicida ma di infarto. Storia di riappropriazione di
affetti, come con la moglie, in sempiterna sintonizzazione sui programmi
televisivi italiani, e di sentimenti che non si cancellano, come quelli con le
amanti.
La
narrazione inanella fictio, suggestioni
e nascondimenti, ove i personaggi che si susseguono, al pari dei parenti, si
intuiscono, non si esplicitano. Lo stesso Craxi è citato con la sigla “C”.
Una
coralità di attori di ampio respiro recitativo incollano lo sguardo allo
schermo: Livia Rossi, Luca Filippi,
Silvia Cohen, Roberto De Francesco, Omero Antonutti, Giuseppe Cederna, Renato
Carpentieri, Claudia Gerini.
Una
riflessione sulla tragica sorte dei potenti che cadono in disgrazia e che –
come è consuetudine in Italia – vedono mutare in forme ectoplasmatiche i
leccapiedi del giorno prima.
Un
lavoro che dovrebbe indurre a meditare un Popolo in eterna negazione di se
stesso: mai stato fascista, mai stato democristiano, mai stato berlusconiano e,
probabilmente, mai stato leghista.
Un
film sull’amore filiale, sugli inganni del potere e sulla sua caducità, sul
senso di onnipotenza che obnubila le menti degli uomini di successo che perdono
l’orizzonte dei limiti umani; un film sulla falsità, sulla viltà e sulla
slealtà ma anche sugli affetti più autentici che sono quelli familiari, presenti
non solo nella luce che svanisce nel crepuscolo.
Nella
penombra del racconto v’è un interrogativo e un “memo”: perché non vi sono
stati processi, condanne e galera (4000 arresti, 1000 condannati: e i 3000 che
si sono fatti la prigione come forma di pressione e, quindi, di tortura?) per gli
esponenti del Partito Comunista Italiano percettori per lustri e decenni di
immani fondi dal nemico n. 1 dell’Occidente, la tirannica, imperiale e
comunista Unione Sovietica? Sotto la
Presidenza del Consiglio di Bettino Craxi l’Italia divenne la quinta potenza
mondiale.
Buona
obbligatoria visione!
Fabrizio Giulimondi
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