venerdì 31 gennaio 2014

"TUTTA COLPA DI FREUD" DI PAOLO GENOVESE

Locandina Tutta colpa di Freud

Immerso nelle atmosfere  delle bellezze romane e accompagnato da una   incantevole colonna sonora, l’ultima fatica  di Paolo GenoveseTutta colpa di Freud” racconta la  storia di un padre, troppo comprensivo, un po’ mammo  e molto psicanalista, e delle  tre figlie, tutte al pari attorcigliate in problemi amorosi.
L’amore -  vera malattia dell’essere umano – è  snocciolato attraverso le vicende vissute dalle  fanciulle, di cui una è lesbica e tenta di tornare alla normalità, l’altra una diciottenne  all’ultimo anno delle superiori  fidanzata con un uomo sposato di 50 anni e, l’ultima, innamorata di un cleptomane sordomuto.
Anche il padre ha il suo bel da fare con una donna misteriosa.
Cast tutto italiano di alto livello, in cui Marco Giallini, Alessandro Gassman, Claudia Gerini, Anna Foglietta e Laura Adriani sparigliano per tutta la durata del film.
Alcune gag sono spassosissime e il film si fa piacevolmente vedere.

Fabrizio Giulimondi


mercoledì 29 gennaio 2014

"LO SGUARDO DI SATANA - CARRIE" DI KIMBERLY PEIRCE

Locandina Lo sguardo di Satana - Carrie
Lo sguardo di Satana- Carrie” di Kimberly Peirce  è il remake del cult horror Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian de Palma, tratto dall’omonimo  romanzo di Stephen King.
Gli anni settanta hanno prodotto i più celebri e bei film del terrore, come L’Esorcista, Rosemary’s Baby, Profondo Rosso, Il Presagio, Amityville Horror. Probabilmente i  film “di paura” realizzati in quel periodo rimangono  insuperati per qualità dei contenuti e delle scene, ma, soprattutto, per la sottile, astuta e, quasi subliminale,  capacità psicologica di penetrare negli anfratti dell’inconscio  e,  fargli partorire le angosce e i nascosti tormenti di ciascuno di noi.
Nei giorni d’oggi, in cui questo genere si è trasformato in splatter e frattaglie, alla Saw maniera, “Lo sguardo di Satana – Carrie” può risultare datato. Quelli della mia generazione che lo hanno visto al tempo, lo vedono come una ripetizione, mentre gli spettatori più giovani lo vedono “superato ” dagli  attuali “canoni estetici”.
V’è da dire che la ragazzina  con il potere telecinetico negli occhi, figlia e vittima di una madre pazza e circondata da adolescenti crudeli, nonostante ciò che combina durante il tradizionale ballo di fine d’anno al termine del ciclo della sua high school, continua a suscitare pietà e compassione.
Elemento di diversità rispetto alla  precedente versione è rappresentato dalla maggiore umanità di una delle protagoniste, che mostra una inaspettata crisi di coscienza dopo la moltitudine di infamie poste in essere avverso la povera Carrie.
Fabrizio Giulimondi



lunedì 27 gennaio 2014

"IL MESSIA SPOSO. LA METAFORA SPONSALE IN MC 2, 18-22" DI MICHAL TADEUSZ SZWEMIN


Il Messia Sposo. La metafora sponsale in Mc 2, 18-22” di Michal Tadeusz Szwemin (www.przegladkoninski.pl), breve saggio di un giovane sacerdote orionino polacco la cui età, cultura, preparazione  e attenzione al particulare,  conferiscono freschezza al fine intelletto, alla capacità di ricerca, alla sobrietà nella esposizione e alla curiosità teologica.

Lo scritto compie una analisi accurata, anatomica, chirurgica, puntigliosa, metodologicamente intransigente, su alcuni passi dei Vangeli e dell’Antico Testamento in merito alla  figura, nuova e dirompente, di Gesù come Sposo della Sua Chiesa.

 I testi Sacri vengono comparati, meditati e vivisezionati con approfondita saggezza, al pari della metodica adoperata dall’ingegnere genetico.

 L’Autore mostra un occhio attento ai dettagli, per il cui tramite disvela il “Tutto”.

Lavoro colto, erudito, dotto, con un affascinante e scientifico studio etimologico, storico e semantico,  di singole parole ed espressioni greche tratte dal Nuovo Testamento. Suggestiva e di grande interesse gnoseologico la dissertazione sulla centralità del digiuno nella Bibbia, sino a giungere all’uso di tale pratica in Cristo, vissuta in modo spiritualmente diverso e con un atteggiamento gioioso,  strumento  didattico e didascalico, di rinnovamento e rigenerazione dell’anima.

Al centro del lavoro di Michal Tadeusz Szwemin v’è il rapporto sponsale fra Cristo e la Chiesa, “metafora influente e fruttifera della Bibbia” – come riflette il cardinal Kasper nella sua prefazione – “sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento (…) anche i documenti del Concilio Vaticano Secondo ne danno abbondante testimonianza in una molteplicità di luoghi. Nessun’altra metafora esprime meglio il rapporto del tutto personale e intimo fra Dio e il suo popolo, fra Dio e ciascun uomo, la cui anima è inquieta fino a che non riposi in Dio (San Agostino), perché tutti noi siamo creati per l’amore (San Giovanni della Croce).

Le metafore e le parabole sono gli artifizi retorici e letterari privilegiati da Gesù per “comunicare” ad Apostoli e discepoli la “Veritas”, per  rappresentare, fa conoscere e palesare la Sua originaria e  teleologica natura e sostanza divina: partendo proprio dai versetti dell’Evangelista Marco 2, 18-22  emerge, con potente chiarore, che “Gesù è lo ‘Sposo’, Egli è ‘nuovo vestito’, ‘vino nuovo’. Egli è la persona che perdona i peccati (2,1-12), è medico per i peccatori (2, 15-17), è padrone del sabato e delle malattie (2, 23-3,6). La Sua identità si manifesta in diversi modi, ma sempre come non accettabile per i giudei. Questo ‘nuovo’ è incompatibile con il ‘vecchio’. “.

 Fabrizio Giulimondi

domenica 26 gennaio 2014

THE WOLF OF WALL STREET" DI MARTIN SCORSESE

Locandina italiana The Wolf of Wall Street
Una pantagruelica orgia di sesso, denaro e droga,  è il veramente brutto film di Martin ScorseseThe wolf of Wall Street”, basato su una storia vera, con  Leonardo Dicaprio (Golden Globe come miglior attore protagonista), la cui bravura si scioglie e scompare in un personaggio sgradevole e disgustoso.
Le tre ore di proiezione (all’inizio della terza ho alzato le terga dalla poltroncina e me ne sono andato) mostrano le bolge dantesche della finanza americana. In alcune scene, come quella che propone  una ammucchiata lesbo - etero – omo su un aereo,  o un’altra che propina allo spettatore un “mucchio selvaggio” gay nella villa del tycoon protagonista delle vicende, sembra di scorgere le terrifiche visioni infernali dipinte dai grandi pittori fiamminghi Bruegel e Bosch.
Unica nota sconcertante di colore: la pellicola è per tutti!

Fabrizio Giulimondi


sabato 25 gennaio 2014

" I MELROSE" - "LIETO FINE" DI EDWARD ST AUBYN

Lieto fineI Melrose
“L’eroina era la cavalleria. L’eroina era la gamba mancante della sedia, scolpita con tale precisione da combaciare al millimetro con il punto di rottura, fino all’ultima scheggia. L’eroina andava a posarsi delicatamente alla base del cranio e gli si avvolgeva intorno al sistema nervoso, come un gatto nero che si acciambella sul suo cuscino preferito. Era morbida e ricca come il ripieno di un piccione selvatico, lo stamparsi liquido della ceralacca su un foglio, un pugno di pietre preziose che passa da una mano all’altra(…) Il suo passato giaceva davanti a lui come un cadavere in attesa di essere imbalsamato. Ogni notte incubi feroci lo svegliavano, troppo spaventato per dormire, si liberava dalle lenzuola fradice di sudore e fumava una sigaretta dietro l’altra finché l’alba si affacciava nel cielo, pallida e sporca come le lamelle di un fungo(…) L’insonnia, gli stravizi alcolici, gli eccessi alimentari, il desiderio costante di solitudine che, se appagato, lo spingeva ad avere un bisogno estremo di compagnia(…) Il guaio era che, anche quando l’oggetto inseguito cambiava, l’angoscia dell’inseguimento restava. Si scoprì a precipitarsi verso un vuoto piuttosto che a fuggirne.”
Patrick è la figura centrale, tragica, devastante, di un romanzo complesso, denso, intrigato come il fitto  ricamo di un tappeto persiano, dello scrittore inglese Edward St Aubyn, composto da due volumi I Melrose” e “Lieto Fine” (Neri Pozza editore). Novecentosei  pagine che scavano senza reticenze nelle bassezze dell’animo umano, in un turbinio di stati d’animo esaltati da invidie e ipocrisie, malanimo, cupidigia e infamie di ogni sorta. I rapporti fra tutti i personaggi sono scevri di ogni affetto,  i sentimenti fra di loro non esistono, sostanziandosi unicamente nell’abominio di formalità dettate dall’ etichetta imposta dal bon ton  di una cupa high society britannica. La cinica spregiudicatezza, avida  di immoralità e di amoralità,  già mirabilmente incarnata  in  Lord Henry ne  Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, la riscontriamo nei personaggi del libro di Aubyn, specie nel padre di Patrick, David, pedofilo, stupratore, immondo in ogni aspetto del suo essere: “Ma non è questa la chiave di ogni educazione di successo? Trascorri l’adolescenza venendo promosso da torturato a torturatore, senza una donna tra i piedi che ti distragga.” La formazione inglese dei fanciulli, tramandata per generazioni, implacabile e crudele, i cui miasmi si respirano  in ogni poro del lavoro. David ne è il sommo vate: maligno, implacabile nella sua determinata e crudele lucida volontà distruttiva di ogni persona  stia intorno a lui, a partire dal figlio Patrick e dalla moglie Eleonor, bomba incendiaria ovunque vada. Patrick è nato da uno stupro e per essere stuprato,  Eleonor per essere umiliata, demolita nel corpo e nella mente, nutrendosi a quattro zampe come un cane, quotidianamente decomposta  per poi decomporre, svuotando di ogni ricchezza materiale e affetto il figlio Patrick, degenerando poi in una febbre filantropica,  che nasconde in realtà solo una strisciante e sempre più tumultuosa follia.
Il funerale di Eleonor è l’occasione per l’Autore per sballottare il lettore fra psicanalisi, filosofia, religione e letteratura, conducendolo per mano dai bassifondi dell’anima alla ingiustificata esaltazione di intelletti, che  null’altro sono che miseri profittatori e spregevoli egoisti.
L’illustrazione di Eleonor, giacente in un  feretro, è la plastica rappresentazione di ciò che è stata in vita, nella sua esteriorità corporea e nella sua intimità interiore: “L’assenza di vita di quel corpo così familiare, i lineamenti rigidi e ritoccati di quel viso che conosceva fin da prima di nascere, facevano tutta la differenza del mondo. Davanti a lui c’era solo un oggetto in transito, diretto verso l’ultima tappa del suo percorso. Al posto del giocattolo di gomma o dello straccetto che i bambini usano per far fronte alla assenza della madre, gli era stato offerto un cadavere, le dita ossute che stringevano una rosa bianca artificiale con i rigidi petali di seta, disposti sopra un cuore che non batteva più. C’era in quel corpo il sarcasmo della reliquia e insieme il prestigio della metonimia. Il cadavere stava a rappresentare con la  medesima autorevolezza sua madre e la sua assenza(…..) Eleonor aveva lasciato il mondo con scricchiolante lentezza, scivolando centimetro dopo centimetro nell’oblio
Patrick  protagonista indiscusso, ritto nel proscenio,  galleggia fra derive alcoliche, viaggi allucinatori ed estatici conseguenti alla  assunzione massiva di ogni tipo di droga, disgregazione mentale, autodistruzione,  disfacimento e annientamento fisico, sballottato fra desiderio di vendetta, rabbia, compassione, solitudine e disperazione. La potenza della figura di Patrick e le suggestioni da essa create riportano  alla contemporaneità la drammaticità stilistica, narrativa e contenutistica del teatro greco dell’epoca di Sofocle, Euripide ed Eschilo.
Abbondano le figure retoriche dell’ipallage, della metafora, della metalepsi, dell’ossimoro, della sinestesia e del tropo (o traslato).
Il racconto naviga in mezzo a composizioni floreali di parole, passeggia tra un florilegio di combinazioni di espressioni e aggettivi che fanno respirare al lettore a pieni polmoni una brezza lussureggiante di letteratura russa, anglosassone e nordamericana, da Cechov, Tolstoj e Dostoevskij a Oscar Wilde,  Edna O’ Brien,  Scott Fitzgerald e il  Nobel per la letteratura 2013  Alice Munro.
 “Profughi del tempo…, pazienza pedagogica… albero genealogico delle emozioni… claustrofobica agorafobia… penombra speziata del suo albergo… paludi mercuriali della prima astinenza,  e ancora una moltitudine infinita e incontenibile di giochi di parole,  divagazioni e voli pindarici, fughe dalla realtà, estrosa fantasia nel vezzo di compiere opere di metamorfosi dei vocaboli e nell’uso dei sinonimi e dei loro contrari, in forza dei quali lo Scrittore   dipinge “il foro interno” dell’ ”Uomo” nel suo precipitare verso le profondità della malattia psichica e abissali e putride miserie, “Uomo”  rappresentato attraverso le molteplici articolazioni della famiglia Melrose e la perversa cerchia dei suoi amici.
Il lettore peregrina nei meandri delle loro vite, rischiando talora di perdersi lungo il percorso di una trama complessa e pruriginosa, blandito e distratto da un periodare affascinante e musicale, che avvolge e sorregge una narrazione immersa in una corposa e, specie nella prima parte, implacabilmente dura e ferocemente veritiera, opera di genio e di creatività letteraria.

Fabrizio Giulimondi

mercoledì 22 gennaio 2014

"DISCONNECT" DI HENRY ALEX RUBIN

Locandina italiana Disconnect

Duro, implacabile, impietoso,  “Disconnect “di Henry Alex Rubin si muove al ritmo di riprese nevrotiche e schizoidi e dei brani ansiogeni tecno e rap di Max Richter.
Tre storie di nuclei familiari “senza famiglia”, senza affetti e senza legami, che vengono gettate nel frullatore del web e delle chat, ove pornografia minorile e scherzi informatici, coloriti di noia e di abissale superficialità,  si trasformano spasmodicamente in crimini e, fatalmente, in tragedia.
Ogni minuto di proiezione è un pugno allo stomaco e, soltanto allo scader del the end di un film che consiglio-sconsiglio ai ragazzi al di sotto dei quattordici  anni, i tre  drammi che esplodono contemporaneamente davanti agli occhi dello spettatore, sono trapassati da un  baluginio di speranza, che ha il gusto  di sentimenti veri, ritrovati, riscoperti e  che sa di un abbraccio dato da  una sorella al fratello in coma, dopo aver tentato di darsi la morte.
Fabrizio Giulimondi