sabato 25 gennaio 2014

" I MELROSE" - "LIETO FINE" DI EDWARD ST AUBYN

Lieto fineI Melrose
“L’eroina era la cavalleria. L’eroina era la gamba mancante della sedia, scolpita con tale precisione da combaciare al millimetro con il punto di rottura, fino all’ultima scheggia. L’eroina andava a posarsi delicatamente alla base del cranio e gli si avvolgeva intorno al sistema nervoso, come un gatto nero che si acciambella sul suo cuscino preferito. Era morbida e ricca come il ripieno di un piccione selvatico, lo stamparsi liquido della ceralacca su un foglio, un pugno di pietre preziose che passa da una mano all’altra(…) Il suo passato giaceva davanti a lui come un cadavere in attesa di essere imbalsamato. Ogni notte incubi feroci lo svegliavano, troppo spaventato per dormire, si liberava dalle lenzuola fradice di sudore e fumava una sigaretta dietro l’altra finché l’alba si affacciava nel cielo, pallida e sporca come le lamelle di un fungo(…) L’insonnia, gli stravizi alcolici, gli eccessi alimentari, il desiderio costante di solitudine che, se appagato, lo spingeva ad avere un bisogno estremo di compagnia(…) Il guaio era che, anche quando l’oggetto inseguito cambiava, l’angoscia dell’inseguimento restava. Si scoprì a precipitarsi verso un vuoto piuttosto che a fuggirne.”
Patrick è la figura centrale, tragica, devastante, di un romanzo complesso, denso, intrigato come il fitto  ricamo di un tappeto persiano, dello scrittore inglese Edward St Aubyn, composto da due volumi I Melrose” e “Lieto Fine” (Neri Pozza editore). Novecentosei  pagine che scavano senza reticenze nelle bassezze dell’animo umano, in un turbinio di stati d’animo esaltati da invidie e ipocrisie, malanimo, cupidigia e infamie di ogni sorta. I rapporti fra tutti i personaggi sono scevri di ogni affetto,  i sentimenti fra di loro non esistono, sostanziandosi unicamente nell’abominio di formalità dettate dall’ etichetta imposta dal bon ton  di una cupa high society britannica. La cinica spregiudicatezza, avida  di immoralità e di amoralità,  già mirabilmente incarnata  in  Lord Henry ne  Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, la riscontriamo nei personaggi del libro di Aubyn, specie nel padre di Patrick, David, pedofilo, stupratore, immondo in ogni aspetto del suo essere: “Ma non è questa la chiave di ogni educazione di successo? Trascorri l’adolescenza venendo promosso da torturato a torturatore, senza una donna tra i piedi che ti distragga.” La formazione inglese dei fanciulli, tramandata per generazioni, implacabile e crudele, i cui miasmi si respirano  in ogni poro del lavoro. David ne è il sommo vate: maligno, implacabile nella sua determinata e crudele lucida volontà distruttiva di ogni persona  stia intorno a lui, a partire dal figlio Patrick e dalla moglie Eleonor, bomba incendiaria ovunque vada. Patrick è nato da uno stupro e per essere stuprato,  Eleonor per essere umiliata, demolita nel corpo e nella mente, nutrendosi a quattro zampe come un cane, quotidianamente decomposta  per poi decomporre, svuotando di ogni ricchezza materiale e affetto il figlio Patrick, degenerando poi in una febbre filantropica,  che nasconde in realtà solo una strisciante e sempre più tumultuosa follia.
Il funerale di Eleonor è l’occasione per l’Autore per sballottare il lettore fra psicanalisi, filosofia, religione e letteratura, conducendolo per mano dai bassifondi dell’anima alla ingiustificata esaltazione di intelletti, che  null’altro sono che miseri profittatori e spregevoli egoisti.
L’illustrazione di Eleonor, giacente in un  feretro, è la plastica rappresentazione di ciò che è stata in vita, nella sua esteriorità corporea e nella sua intimità interiore: “L’assenza di vita di quel corpo così familiare, i lineamenti rigidi e ritoccati di quel viso che conosceva fin da prima di nascere, facevano tutta la differenza del mondo. Davanti a lui c’era solo un oggetto in transito, diretto verso l’ultima tappa del suo percorso. Al posto del giocattolo di gomma o dello straccetto che i bambini usano per far fronte alla assenza della madre, gli era stato offerto un cadavere, le dita ossute che stringevano una rosa bianca artificiale con i rigidi petali di seta, disposti sopra un cuore che non batteva più. C’era in quel corpo il sarcasmo della reliquia e insieme il prestigio della metonimia. Il cadavere stava a rappresentare con la  medesima autorevolezza sua madre e la sua assenza(…..) Eleonor aveva lasciato il mondo con scricchiolante lentezza, scivolando centimetro dopo centimetro nell’oblio
Patrick  protagonista indiscusso, ritto nel proscenio,  galleggia fra derive alcoliche, viaggi allucinatori ed estatici conseguenti alla  assunzione massiva di ogni tipo di droga, disgregazione mentale, autodistruzione,  disfacimento e annientamento fisico, sballottato fra desiderio di vendetta, rabbia, compassione, solitudine e disperazione. La potenza della figura di Patrick e le suggestioni da essa create riportano  alla contemporaneità la drammaticità stilistica, narrativa e contenutistica del teatro greco dell’epoca di Sofocle, Euripide ed Eschilo.
Abbondano le figure retoriche dell’ipallage, della metafora, della metalepsi, dell’ossimoro, della sinestesia e del tropo (o traslato).
Il racconto naviga in mezzo a composizioni floreali di parole, passeggia tra un florilegio di combinazioni di espressioni e aggettivi che fanno respirare al lettore a pieni polmoni una brezza lussureggiante di letteratura russa, anglosassone e nordamericana, da Cechov, Tolstoj e Dostoevskij a Oscar Wilde,  Edna O’ Brien,  Scott Fitzgerald e il  Nobel per la letteratura 2013  Alice Munro.
 “Profughi del tempo…, pazienza pedagogica… albero genealogico delle emozioni… claustrofobica agorafobia… penombra speziata del suo albergo… paludi mercuriali della prima astinenza,  e ancora una moltitudine infinita e incontenibile di giochi di parole,  divagazioni e voli pindarici, fughe dalla realtà, estrosa fantasia nel vezzo di compiere opere di metamorfosi dei vocaboli e nell’uso dei sinonimi e dei loro contrari, in forza dei quali lo Scrittore   dipinge “il foro interno” dell’ ”Uomo” nel suo precipitare verso le profondità della malattia psichica e abissali e putride miserie, “Uomo”  rappresentato attraverso le molteplici articolazioni della famiglia Melrose e la perversa cerchia dei suoi amici.
Il lettore peregrina nei meandri delle loro vite, rischiando talora di perdersi lungo il percorso di una trama complessa e pruriginosa, blandito e distratto da un periodare affascinante e musicale, che avvolge e sorregge una narrazione immersa in una corposa e, specie nella prima parte, implacabilmente dura e ferocemente veritiera, opera di genio e di creatività letteraria.

Fabrizio Giulimondi

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