“L’eroina era la cavalleria. L’eroina
era la gamba mancante della sedia, scolpita con tale precisione da combaciare
al millimetro con il punto di rottura, fino all’ultima scheggia. L’eroina
andava a posarsi delicatamente alla base del cranio e gli si avvolgeva intorno
al sistema nervoso, come un gatto nero che si acciambella sul suo cuscino
preferito. Era morbida e ricca come il ripieno di un piccione selvatico, lo
stamparsi liquido della ceralacca su un foglio, un pugno di pietre preziose che
passa da una mano all’altra(…) Il suo passato giaceva davanti a lui come un
cadavere in attesa di essere imbalsamato. Ogni notte incubi feroci lo
svegliavano, troppo spaventato per dormire, si liberava dalle lenzuola fradice
di sudore e fumava una sigaretta dietro l’altra finché l’alba si affacciava nel
cielo, pallida e sporca come le lamelle di un fungo(…) L’insonnia, gli stravizi
alcolici, gli eccessi alimentari, il desiderio costante di solitudine che, se
appagato, lo spingeva ad avere un bisogno estremo di compagnia(…) Il guaio era
che, anche quando l’oggetto inseguito cambiava, l’angoscia dell’inseguimento
restava. Si scoprì a precipitarsi verso un vuoto piuttosto che a fuggirne.”
Patrick
è la figura centrale, tragica, devastante, di un romanzo complesso, denso,
intrigato come il fitto ricamo di un
tappeto persiano, dello scrittore inglese Edward St Aubyn, composto da due
volumi “I Melrose” e “Lieto Fine” (Neri Pozza editore). Novecentosei pagine che scavano senza reticenze nelle
bassezze dell’animo umano, in un turbinio di stati d’animo esaltati da invidie
e ipocrisie, malanimo, cupidigia e infamie di ogni sorta. I rapporti fra tutti
i personaggi sono scevri di ogni affetto, i sentimenti fra di loro non esistono, sostanziandosi
unicamente nell’abominio di formalità dettate dall’ etichetta imposta dal bon ton di una cupa high society britannica. La cinica spregiudicatezza, avida di immoralità e di amoralità, già mirabilmente incarnata in Lord
Henry ne Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar
Wilde, la riscontriamo nei personaggi del libro di Aubyn, specie nel padre
di Patrick, David, pedofilo, stupratore, immondo in ogni aspetto del suo
essere: “Ma non è questa la chiave di
ogni educazione di successo? Trascorri l’adolescenza venendo promosso da
torturato a torturatore, senza una donna tra i piedi che ti distragga.” La
formazione inglese dei fanciulli, tramandata per generazioni, implacabile e
crudele, i cui miasmi si respirano in
ogni poro del lavoro. David ne è il sommo vate: maligno, implacabile nella sua
determinata e crudele lucida volontà distruttiva di ogni persona stia intorno a lui, a partire dal figlio
Patrick e dalla moglie Eleonor, bomba
incendiaria ovunque vada. Patrick è nato da uno stupro e per essere
stuprato, Eleonor per essere umiliata,
demolita nel corpo e nella mente, nutrendosi a quattro zampe come un cane,
quotidianamente decomposta per poi
decomporre, svuotando di ogni ricchezza materiale e affetto il figlio Patrick,
degenerando poi in una febbre
filantropica, che nasconde in realtà
solo una strisciante e sempre più tumultuosa follia.
Il
funerale di Eleonor è l’occasione per l’Autore per sballottare il lettore fra
psicanalisi, filosofia, religione e letteratura, conducendolo per mano dai
bassifondi dell’anima alla ingiustificata esaltazione di intelletti, che null’altro sono che miseri profittatori e
spregevoli egoisti.
L’illustrazione
di Eleonor, giacente in un feretro, è la
plastica rappresentazione di ciò che è stata in vita, nella sua esteriorità
corporea e nella sua intimità interiore: “L’assenza
di vita di quel corpo così familiare, i lineamenti rigidi e ritoccati di quel
viso che conosceva fin da prima di nascere, facevano tutta la differenza del
mondo. Davanti a lui c’era solo un oggetto in transito, diretto verso l’ultima
tappa del suo percorso. Al posto del giocattolo di gomma o dello straccetto che
i bambini usano per far fronte alla assenza della madre, gli era stato offerto
un cadavere, le dita ossute che stringevano una rosa bianca artificiale con i
rigidi petali di seta, disposti sopra un cuore che non batteva più. C’era in
quel corpo il sarcasmo della reliquia e insieme il prestigio della metonimia.
Il cadavere stava a rappresentare con la
medesima autorevolezza sua madre e la sua assenza(…..) Eleonor aveva
lasciato il mondo con scricchiolante lentezza, scivolando centimetro dopo centimetro
nell’oblio”
Patrick
protagonista indiscusso, ritto nel
proscenio, galleggia fra derive
alcoliche, viaggi allucinatori ed estatici conseguenti alla assunzione massiva di ogni tipo di droga,
disgregazione mentale, autodistruzione, disfacimento e annientamento fisico,
sballottato fra desiderio di vendetta, rabbia, compassione, solitudine e
disperazione. La potenza della figura di Patrick e le suggestioni da essa
create riportano alla contemporaneità la
drammaticità stilistica, narrativa e contenutistica del teatro greco dell’epoca
di Sofocle, Euripide ed Eschilo.
Abbondano
le figure retoriche dell’ipallage, della metafora, della metalepsi, dell’ossimoro,
della sinestesia e del tropo (o traslato).
Il
racconto naviga in mezzo a composizioni floreali di parole, passeggia tra un
florilegio di combinazioni di espressioni e aggettivi che fanno respirare al
lettore a pieni polmoni una brezza lussureggiante di letteratura russa, anglosassone
e nordamericana, da Cechov, Tolstoj e Dostoevskij a Oscar Wilde, Edna O’ Brien, Scott Fitzgerald e il Nobel per la letteratura 2013 Alice Munro.
“Profughi
del tempo…, pazienza pedagogica… albero genealogico delle emozioni… claustrofobica
agorafobia… penombra speziata del suo albergo… paludi mercuriali della prima
astinenza, e ancora una moltitudine
infinita e incontenibile di giochi di parole, divagazioni e voli pindarici, fughe dalla
realtà, estrosa fantasia nel vezzo di compiere opere di metamorfosi dei vocaboli
e nell’uso dei sinonimi e dei loro contrari, in forza dei quali lo Scrittore dipinge
“il foro interno” dell’ ”Uomo” nel
suo precipitare verso le profondità della malattia psichica e abissali e
putride miserie, “Uomo” rappresentato attraverso
le molteplici articolazioni della famiglia Melrose e la perversa cerchia dei suoi
amici.
Il lettore
peregrina nei meandri delle loro vite, rischiando talora di perdersi lungo il
percorso di una trama complessa e pruriginosa, blandito e distratto da un
periodare affascinante e musicale, che avvolge e sorregge una narrazione immersa
in una corposa e, specie nella prima parte, implacabilmente dura e ferocemente
veritiera, opera di genio e di creatività letteraria.
Fabrizio Giulimondi
Bellissima recensione
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