Magnificente
e coinvolgente affresco che attraversa una porzione importante della storia americana, “The
Butler – un maggiordomo alla Casa Bianca”, di Lee Daniels, racconta la
storia di Cecil Gaines e della sua
famiglia e, per il suo tramite, della segregazione razziale e della lotta dei
diritti civili negli U.S.A. dagli anni ’50 ad oggi.
Cecil, schiavo in un campo
di cotone, vede ammazzare il padre dal “padrone”,
reo di un brutale stupro ai danni della
madre.
Di
lì fuggirà per non essere ammazzato a sua volta e la vita lo condurrà ad essere
un bravo “negro di casa”, ossia un maggiordomo, che finirà a servizio, grazie alle proprie
capacità, alla White House.
Sullo
sfondo appaiono, con tinte sfumate, i Presidenti degli Stati Uniti che Cecil servirà
per venti anni: Dwight David Eisenhower (1953 – 1961); John Fitzgerald Kennedy (1961 – 1963); Lyndon Baynes Johnson (1963 –
1969); Richard Nixon (1969 – 1974); Gerald Rudolph Ford (1974 – 1977); James
Earl Carter (1977 – 1980); Ronald Wilson Reagan (1980 – 1988).
Ogni
volto presidenziale narra un episodio della lotta per l’affermazione della
eguaglianza fra popolazione nera e quella bianca.
Il
racconto degli orrori che i nigger hanno
subito per anni lascia sgomenti e, seppur a pennellate, vengono ripercorsi i
momenti salienti delle grandi battaglie e rivolte condotte da Malcom X, Martin Luther King ed altri grandi leader afro-americani. Terribili le scene degli
allenamenti a cui sono sottoposti i ragazzi neri per imparare a resistere agli insulti e alle percosse, per essere pronti ad intraprendere azioni gandhiane alla conquista
defli spazi nei ristoranti destinati ai wasp.
Cecil (interpretato da Forest Whitaker, Premio Oscar nel 2007 come miglior attore in L’ultimo
re di Scozia), ha una moglie (la cui attrice è Oprah Winfrey, famosa conduttrice
per molti anni di seguitissimi talk show
statunitensi) e due figli, che incarnano il diverso e violentemente
contrapposto pensiero americano a cavallo fra gli anni sessanta e settanta: i
nemici del sistema il primogenito, combattente non violento, per poi indossare
il basco nero delle black panthers; il
patriottismo il più giovane, che morirà in Vietnam. Due visioni alternative, radicalmente
alternative, furiosamente alternative, che si unificheranno nell’amore fraterno
e filiale.
La morte
dell’uno sarà devastante anche per i rapporti fra Cecil e il figlio rimasto in
vita che, dismessa la divisa delle pantere
nere, indossa i panni di un coraggioso
e fattivo membro del Congresso.
Sarà
la lotta per la liberazione di Mandela e per l’abolizione dell’apartheid in Sudafrica a far riabbracciare padre e figlio, in un finale il cui sottofondo regalerà allo
spettatore il sonoro originale di frasi fatidiche declamate da Presidenti favorevoli
ai rights
of black people.
“Yes, we can” di obamiana memoria echeggerà
nel buio della sala, venuta via l’ultima immagine.
I
brani musicali gospel, blues, folk e
country dei grandi singers di colore sono
la splendida colonna sonora di un film che meritava, senza ombra di dubbio,
almeno qualche nomination.
Stralci
di cinegiornali del tempo e il richiami in salsa ideologica a pellicole come La calda notte dell’Ispettore Tibbs e Indovina chi viene a cena, con un Sidney Poitier visto come uno Zio Tom, sono il tocco di classe finale.
Fabrizio Giulimondi
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